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“Giustappunto!” di Vittorio Lussana: quella Guerra a sinistra che dilaniò la Prima Repubblica

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di Vittorio Lussana #Giustappunto twitter@gaiaitaliacom #Politica

 

Negli anni ’60 del secolo scorso, il Partito comunista italiano si era ritrovato nelle condizioni di dover reagire alla grave crisi di leadership venutasi a creare dopo la scomparsa di Palmiro Togliatti, avvenuta a Yalta nel 1964. Iniziò dunque a emergere, dall’apparato del Partito, la figura di Enrico Berlinguer: un leader sassarese che aveva studiato a fondo le caratteristiche fondamentali degli elettorati comunista e democristiano e che li riteneva assai poco dissimili. In effetti, gli iscritti al Pci erano per il 39% operai, per il 13% braccianti, per il 16% contadini, per il 5% artigiani e commercianti, per il 3% impiegati ed intellettuali, per il 13% casalinghe e per il 7% pensionati; la Dc, a sua volta, era composta per il 17% da operai, per il 5% da braccianti, per il 16% da contadini, per il 7% da artigiani e commercianti, per il 22% da impiegati, per il 25% da casalinghe e per il 6% da pensionati. Pertanto, secondo Berlinguer, Dc e Pci erano due partiti che, tutto sommato, condividevano “un’anima profondamente ed eminentemente popolare”. E su tale base di ragionamento, iniziò a elaborare una propria teoria, esposta per la prima volta nell’opuscolo: ‘Riflessione dopo i fatti del Cile’, pubblicato nel 1973. Berlinguer rappresentava indubbiamente un uomo ‘nuovo’ nel Pci, poiché non apparteneva, da un punto di vista generazionale, alla ‘leva’ comunista uscita dalla Resistenza e le sue origini culturali familiari erano di derivazione schiettamente laica e liberaldemocratica (il padre era stato un dirigente del Partito sardo d’azione). Di carattere schivo, anche a causa di una certa timidezza, aveva subìto l’influsso di periodici cattolico–comunisti, quali ‘Dibattito politico’ di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi e la ‘Rivista trimestrale’ di Claudio Napoleoni e Franco Rodano. La tesi che egli propose era, insomma, la seguente: come la tragica fine di Salvador Allende in Cile aveva dimostrato, uno Stato capitalista non può essere governato con il 51% dei voti o con maggioranze composite e ‘risicate’. Occorreva, quindi, una vasta confluenza di forze tra loro compatibili per il proprio comune radicamento sociale – Dc, Pci e Psi – che sacrificassero una parte delle proprie aspirazioni addivenendo a un ‘compromesso storico’, in nome del risanamento economico, della solidarietà nazionale e della necessità di una nuova etica civile. L’uso dell’aggettivo ‘storico’, per il Pci significava l’archiviazione di molta ‘zavorra ideologica’: dalla teoria ‘leninista’ sulla distruzione del sistema capitalistico, alla tesi ‘gramsciana’ dell’alleanza tra contadini e operai. Inoltre, sul piano strettamente politico, l’ossimoro si presentava come l’inizio di un ‘nuovo corso’, che portava a compimento la vecchia strategia ‘togliattiana’ della ‘mano tesa’ ai moderati, da tempo predisposta dall’ala intellettuale dei ‘comunisti cattolici’ che faceva riferimento ad Adriano Ossicini e, soprattutto, a Franco Rodano. Nella sua relazione al Comitato centrale, Berlinguer lo spiegò nitidamente: “La politica del compromesso storico, da una parte è qualcosa di più di una formula nuova di governo, ma dall’altra vuol essere, già oggi, l’indicazione di un metodo di azione e di rapporti politici che, mentre contribuiscono ad agevolare la soluzione di problemi urgenti, sospingono i Partiti e le forze democratiche, nelle istituzioni rappresentative, in altre sedi e in tutto il Paese, a cercare la comprensione reciproca e l’intesa…”. L’ascendenza ‘rodaniana’ di queste considerazioni era più che tangibile: il disegno era quello di una società ‘organica’, in cui la mediazione e la ‘comprensione’ avrebbero dovuto annullare sistematicamente ogni conflitto, ogni problema, ogni scontro. E la stessa ‘lotta di classe’.

 

Dissacrazione di un ossimoro

Forse poche volte, nel corso della Storia, un gruppo dirigente politico ha commesso un errore così grave, come quello che fece il Pci allorquando adottò il compromesso storico come propria ‘linea’ politica generale. E già alla fine di luglio del 1976 se ne videro le conseguenze, quando la Camera dei deputati incoronò Giulio Andreotti presidente del Consiglio di un governo monocolore democristiano, benevolmente atteso dal Pci, sopportato da tutti per un anno e sostituito, l’anno successivo, da un altro ‘monocolore Andreotti’ con maggioranza ‘esapartitica’, divenuta poi ‘pentapartitica’ per il ritiro dei liberali. Nella condizione di non poter disporre neppure di un sottosegretario alle Poste e costretto, per propria scelta deliberata, tra le ‘spire immobiliste’ della Dc, il Pci tentò di dare la ‘stura’ ai più improbabili propositi di austerità economica, a nuovi modi di governare, a nuovi modelli di sviluppo sociale. Ma dietro ognuna di tali espressioni non vi era il benché minimo progetto per un fare realistico, la benché minima idea di come quelle idee potessero essere realizzate insieme alla Dc. L’attività legislativa del triennio 1976–1979 fu a dir poco miserevole per quantità e qualità, poiché partorita dopo negoziati sfibranti ed estremamente nervosi, come regolarmente accade quando una parte dubita della buona fede dell’altra. Le misure economiche di austerità, per esempio, non riuscirono ad andare oltre una riduzione delle festività civili e religiose, una parziale disincentivazione della scala mobile e un blocco, anche questo assai parziale, delle indennità di buona uscita. Il tutto in un quadro complessivo di durissima crisi fiscale, con un fabbisogno tributario pari al 13% del reddito nazionale (contro il 4,5% degli anni ’60), un gravissimo indebitamento dello Stato e un’inflazione in ‘caduta libera’ (nel 1980, si arrivò a sfiorare il 22%). Il che si traduceva in un obbligo a provvedimenti aspri, di totale rinuncia alla crescita. L’abbaglio di Berlinguer non fu quello di aver tratteggiato una democrazia ‘consociativa’, poiché coalizioni anche molto composite hanno guidato Paesi come l’Olanda, il Belgio, l’Austria e la Germania, scossi da tensioni etniche o religiose notevolmente più acute delle nostre, bensì nell’aver immaginato una ‘consonanza’ quasi perfetta fra le diverse subculture ‘storiche’ dei principali Partiti italiani componenti il cosiddetto ‘arco costituzionale’ e le domande ‘sociali’ che essi esprimevano; nell’aver postulato una docilità naturale delle istituzioni e della burocrazia statale; nell’aver giudicato insignificante la questione degli uomini chiamati a tradurre in opere concrete ogni ipotesi politica. Invece, i nostri Partiti, in particolar modo la Dc, hanno sempre posseduto un ‘corpo’ ben altrimenti ‘vorace’, rispetto alla frugale ‘anima popolare’ che hanno sempre sostenuto di ospitare, mentre gli apparati amministrativi dello Stato non si rivelarono affatto disponibili o neutrali. Affermando ciò, non intendiamo sostenere che i cosiddetti governi di ‘solidarietà nazionale’ furono totalmente ‘abulici’, quanto piuttosto che ogni provvedimento di riforma varato in quella fase finì con lo scontare, nel passaggio dalla teoria all’applicazione, una serie di dirottamenti e di intralci che li fecero apparire frutto di demagogia, o di prese di posizione meramente ideologiche, mentre invece si trattava di faticosi tentativi di riordinare alcuni settori della vita collettiva, in cui imperavano retaggi ‘atavici’ di inciviltà giuridica e morale. Così avvenne, tanto per citare un caso, con la legge n. 180 del 1978, la cosiddetta ‘legge Basaglia’, che impose la chiusura dei manicomi, al fine di affidare l’assistenza psichiatrica dei malati di mente ad apposite strutture territoriali. Tale norma finì con l’essere disattesa proprio nella sua parte più costruttiva e assistenziale. E la cura dei pazienti ‘cronici’ si ritrovò brutalmente ‘scaricata’ sulle famiglie, col risultato di diffondere nella società un’insana nostalgia per il manicomio: un microcosmo ‘orripilante’, che ha sempre ipocritamente permesso ai ‘sani’ di distogliere il proprio sguardo dal doloroso ‘pozzo’ delle patologie mentali. Insomma, nel giro di tre anni, il tentativo del Pci finì col naufragare in un mare di tragedie legislative, umane e politiche (riforma della Rai, rapimento e uccisione di Aldo Moro, recrudescenza del fenomeno terrorista di estrema sinistra, riforma del sistema sanitario nazionale, riforma della normativa sugli affitti o ‘equo-canone’, ndr). E già alla fine del 1978, Enrico Berlinguer dovette constatare che l’esperimento della ‘solidarietà nazionale’ si era rivelato insoddisfacente. Egli decise, allora, di passare alla strategia della ‘alternativa democratica’, cioè alla costituzione di un largo fronte politico progressista, in grado di mandare la Dc all’opposizione. Ma nelle more di un simile progetto diveniva giuoco forza necessario fare i conti con il Psi e con il suo nuovo leader, Bettino Craxi: un esponente che stava cominciando a dimostrare tutta la sua ragguardevole ‘statura’. Craxi, infatti, non aveva alcuna intenzione di lasciarsi logorare nel ruolo di comprimario della grande forza elettorale comunista. E riteneva che il Pci stesse teorizzando un ‘ripiegamento operaista’, che rischiava di preludere a gravissimi errori. Cosa che regolarmente avvenne durante il voto parlamentare del 12 dicembre 1978, allorquando il Pci decise di ‘affondare’ l’intera maggioranza parlamentare, avversando l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo, nonostante Bruxelles avesse garantito alla nostra debole e malandata ‘liretta’ una ‘banda di oscillazione’ più ampia di quella delle altre monete in circolazione nella Comunità economica europea, non escludendo eventuali svalutazioni concordabili. Paventando una virata deflattiva e un’assai poco comprensibile contrazione dell’export, Berlinguer ebbe paura che l’inserimento dell’Italia nel cosiddetto ‘serpentone monetario’ si sarebbe ripercosso sull’occupazione e sul potere di acquisto dei salari, senza tener minimamente conto del fatto che un regime di cambi ‘semifissi’ avrebbe, al contrario, incoraggiato nuovi investimenti finanziari proprio nelle nazioni caratterizzate dalla circolazione di monete deboli. Per l’insieme di tutti questi fattori, Craxi si ritrovò nella fortunata coincidenza di poter approfittare di un gravissimo errore di politica economica e iniziò a ‘svincolarsi’ definitivamente dal Pci. Nel corso di una lunga crisi di governo, in cui Sandro Pertini aveva affidato a Ugo La Malfa l’incarico di riguadagnare il sostegno parlamentare comunista superando l’aut aut di Berlinguer e Pajetta – “O al governo, o all’opposizione” – proprio tramite i ‘buoni uffici’ del Psi, Craxi rifiutò di entrare in un governo di centrosinistra ‘aperto’ al consenso di ‘Botteghe oscure’, rendendo ineludibile il ricorso alle urne. Il 3 giugno 1979, gli italiani si recarono nuovamente a votare. E i risultati furono i seguenti risultati: lieve flessione democristiana, impercettibile progresso del Psi e, soprattutto, sonora ‘batosta’ per il Pci, il quale perse, in una volta sola, 4 punti in percentuale (circa 1 milione e mezzo di voti in meno). Cos’era successo? Semplicemente, che i ceti medi italiani avevano all’improvviso cambiato ‘bandiera’ e giudicato ormai concluso un ‘ciclo’ politico ben preciso, avendo compreso la ‘suicida’ involuzione ideologica impressa dai comunisti alla loro linea politica generale.

 

Il Preambolo

In seguito alla sconfitta comunista del 1979, la prima dopo quasi due decenni di ‘impetuose avanzate’, la Dc si accinse allora ad ‘affilare i coltelli’, per saldare definitivamente i conti con la fase di solidarietà nazionale e le accuse comuniste di aver fatto di tutto pur di non mutare nemmeno di una virgola gli equilibri politici del Paese. Dunque, durante il XIV Congresso dello ‘scudocrociato’, che elesse Flaminio Piccoli nuovo segretario nazionale, Carlo Donat Cattin fece approvare un asciutto ‘preambolo’ in cui si escludeva, per il presente e per il futuro, ogni genere di collaborazione politica con la formazione guidata da Berlinguer. Nel frattempo, Craxi decise di ‘mandare in soffitta’ l’alternativa democratica e iniziò a predisporre il progetto di un polo laico-socialista forte, in grado di trattare da pari a pari con la Dc, mentre il nuovo governo, presieduto da Arnaldo Forlani, cercò di arginare l’altissimo tasso di inflazione riducendo drasticamente il volume di circolazione monetaria ed elevando sensibilmente il costo del denaro. La recessione fu istantanea. E i comunisti colsero immediatamente l’occasione per rilanciare una campagna di scioperi e di malcontento che non li obbligava a particolari sforzi di fantasia. Berlinguer in persona arrivò a patrocinare un lungo sciopero dei dipendenti della Fiat di Mirafiori della durata di 35 giorni: una protesta che si concluse in modo disastroso, senza alcuna assunzione di oneri da parte dell’azienda torinese e con una profonda spaccatura tra i lavoratori delle qualifiche più basse, molti dei quali finirono con l’accodarsi alla ‘marcia dei 40 mila’, organizzata dai ‘colletti bianchi’ di Luigi Arisio, che attraversò Torino chiedendo di rientrare in fabbrica. Tuttavia, anche Forlani durò poco, poiché nel maggio del 1981 scivolò goffamente sullo scandalo ‘P2’: una lista di 935 ‘fratelli massoni’ scoperta a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, che costrinse il governo alle dimissioni allorquando venne provato, inoppugnabilmente, di averla tenuta nascosta, al fine di proteggere i nomi ‘scottanti’ che vi figuravano. Sembrava si fosse ormai giunti a una vera e propria crisi di regime: ‘autosegregatisi’ i comunisti nella loro supponente ‘diversità’, moralmente annichilita la Dc come ‘Partito–Stato’, ancora allo stadio dei ‘vagiti’ il polo laico-socialista, il sistema dei Partiti italiani barcollò paurosamente. Invece, con un ‘colpo d’ala’ dei suoi, il nostro ‘caro vecchietto’ del Quirinale, Sandro Pertini, riuscì a evitare il disastro, affidando la formazione di un nuovo governo al laico Giovanni Spadolini, il quale, attraverso l’innesto dei liberali sul vecchio tronco del centrosinistra ‘organico’, riuscì a ‘mimetizzare’ un accordo tra le diverse forze politiche tra le ‘pieghe’ di un impegnativo ‘patto sociale’ per il rientro dell’inflazione e il risanamento economico. Era nato il ‘Pentapartito’, che nel giro di un anno e mezzo riuscì a convogliare le principali energie dell’esecutivo sulla mediazione tra Confindustria e sindacati per il contenimento del costo del lavoro. Sull’onda di una discreta ripresa congiunturale, si registrò ben presto qualche primo buon effetto, anche se le trattative tra le parti sociali continuavano a ristagnare e, all’interno della nuova maggioranza di governo, cominciavano ad acuirsi i dissensi tra alcuni ministri. Infatti, tra i dicasteri delle Finanze e quello del Bilancio iniziarono a confrontarsi due linee ben distinte: quella del socialista Rino Formica, tesa ad adottare una politica economica più ‘espansiva’, al fine di approfittare della insperata situazione favorevole e riuscire ad ‘agganciare’ la ripresa in atto e quella, decisamente più prudente, del democristiano Beniamino Andreatta, il quale non intendeva allentare le briglie del rigore almeno fino a quando non risultasse completato il riaggiustamento valutario e non fossero stati eliminati i vari differenziali negativi dell’Italia in termini di produttività e di efficienza globale rispetto agli altri Paesi della Cee. L’inconciliabilità tra le due visioni portò ben presto alla remissione dell’incarico dello stesso Spadolini. Finalmente, era giunto il momento di Bettino Craxi: dotato di un fiuto straordinario, il segretario del Psi si era ormai reso conto di poter sopperire all’inconsistenza del polo laico-socialista puntando su una più che probabile punizione elettorale della Dc: un’eventualità che lo avrebbe reso assolutamente arbitro della costituzione di qualsiasi governo, accrescendo di molto la ‘rendita di posizione’ e il potere di ‘interdizione’ della propria formazione politica. Di conseguenza, decise di mandare rapidamente ‘a monte’ un gabinetto di ‘attesa’ del redivivo Fanfani e chiese fiducioso lo scioglimento delle Camere. Puntualmente, dopo qualche sondaggio infruttuoso, Pertini fu costretto a prendere atto della situazione. E il 26 giugno 1983, gli italiani tornarono nuovamente a votare. Le previsioni di Craxi si avverarono in pieno: mentre i comunisti, seppur lentamente, continuavano a ‘dissanguarsi’, la Dc perse quasi 6 punti percentuali, nonostante avesse cercato di limitare i danni chiamando alla segreteria nazionale l’avellinese Ciriaco De Mita e licenziando le pigri ‘cariatidi’ preamboliste. Ma con quel ‘bruciante’ 32,9% tra le mani, De Mita non poté far altro che attendere a piè fermo gli eventi. E il 4 luglio 1983, Bettino Craxi divenne il primo socialista italiano ad assumere la carica di presidente del Consiglio dei ministri. L’uomo, mediamente, non piaceva: sembrava arrogante, cinico, iracondo, inutilmente gnomico nelle sue allocuzioni tutte ‘pause e sentenze’. Ma le cose non stavano affatto così. Craxi aveva in mente un ‘piano’ lucidissimo: restituire identità e immagine al socialismo italiano, strappandolo dall’alveo marxista e reinserendolo nella sua più autentica tradizione riformista, mutualista, laburista e umanitaria, avvilita per più di un secolo dalle ‘suggestioni ideologiche’ del socialismo cosiddetto ‘scientifico’. L’adozione del simbolo del garofano in luogo della vecchia falce e martello alludeva a un revisionismo ideologico analogo a quello intrapreso in Francia da Francois Mitterrand, sotto le insegne della ‘rosa’. Mentre il nuovo ‘Vangelo socialista’, un saggio su Proudhon pubblicato da ‘l’Espresso’ nell’estate del 1978, conteneva essenzialmente una polemica antiburocratica, anticollettivista ed antistatalista mirante a recidere ogni ‘cordone ombelicale’ con il comunismo e a chiudere un’epoca in cui i contrasti tra i due Partiti operai sembrava dovessero essere solamente di natura pragmatica, topologica, meramente contingente. Progetti altrettanto precisi Craxi li aveva in serbo per l’intero sistema politico italiano: unico tra i leader di Partito a coltivare un profondo orgoglio nazionale – era un appassionato collezionista di cimeli garibaldini – egli ritenne che la prassi dei ‘veti incrociati’ avesse fatto ‘strame’ di quella governabilità senza la quale ogni società moderna è destinata a deperire. E governabilità, per lui, era sinonimo di ricorso a poteri ‘intrinsecamente sovrani’ rispetto agli ‘unanimismi preventivi’ che derivavano dalle ‘bizantine’ abitudini della nostra democrazia alle consultazioni e ai compromessi extra-istituzionali. Il governo, secondo Craxi, non doveva preoccuparsi di guadagnare consensi, perché di ciò dovevano occuparsene i singoli Partiti politici, ma esercitare un’autorità che, per quanto delegata dalla fiducia parlamentare, non poteva non essere rigorosamente autonoma. La situazione complessiva di ‘bipartitismo imperfetto’ e la ‘conventio ad excludendum’ che pesava sui comunisti rendeva, inoltre, irrealistiche anche le ‘alternanze’ periodiche, non soltanto quelle di ‘sistema’. Dunque, l’unica possibilità per un reale affrancamento dell’Italia dall’inamovibilità dell’oligarchia democristiana era quello di sottrarre al Partito di piazza del Gesù l’esclusiva del suo potere di coalizione, dando vita a meccanismi di avvicendamento interni al sistema politico nazionale delimitati dalla Costituzione ‘materiale’. Craxi rimase a Palazzo Chigi per quattro anni, imprimendo grande efficacia e speditezza all’azione di governo, incurante delle accuse di ‘bonapartismo’ che gli piovevano addosso da tutte le parti. Già nell’ottobre del 1983, ignorando le querimonie dei pacifisti, inaugurò il proprio stile ‘decisionista’ dando il proprio assenso all’installazione dei missili ‘Pershing’ e ‘Cruise’ presso le basi militari italiane della Nato. Collocazioni che erano già state concertate a Washington e a Bruxelles, al fine di fronteggiare la schiacciante superiorità degli SS 20 sovietici sullo scacchiere strategico continentale. Tuttavia, egli non fu affatto, come lo aveva accusato il milione di manifestanti pacifisti, mobilitati dal Pci in piazza della Repubblica a Roma, un “servo degli americani”. E lo dimostrò nell’ottobre del 1985, durante la cosiddetta ‘notte di Sigonella’, allorquando ordinò ai nostri reparti dell’Esercito d’impedire che truppe scelte statunitensi, dopo aver costretto all’atterraggio un aereo che trasportava alcuni palestinesi sospettati di essere coinvolti nel dirottamento del transatlantico ‘Achille Lauro’, s’impadronissero di quel gruppo di appartenenti al Fronte di liberazione della Palestina in pieno territorio italiano. Ma la vera ‘prova del fuoco’ del decisionismo ‘craxiano’ è legata alle vicende della ‘notte di San Valentino’: nel 1975, Confindustria e sindacati avevano unificato il ‘punto’ dell’indennità integrativa speciale – la cosiddetta ‘scala mobile’ – a un livello elevatissimo, che aveva determinato un cospicuo aumento del costo del lavoro. Negli anni successivi, ogni proposta di ‘raffreddamento’, a onta delle ristrettezze economiche, era stata ostinatamente respinta dalle organizzazioni dei lavoratori, fino a che la Confindustria, nel 1982, si vide costretta a comunicare agli interessati l’immediata disdetta di quell’accordo. Dopo laboriosi ma inconcludenti negoziati tra le parti, il 14 febbraio 1984 Craxi decise di intervenire ‘per imperio’, emanando un decreto che tagliava tre punti di ‘contingenza’. Si trattò di un ‘gesto’ che non si era mai visto: il governo che decretava in materia di contratti!!! Solo la frazione comunista della Cgil si ribellò: Cisl, Uil e la minoranza socialista della Cgil approvarono e sottoscrissero. I sindacalisti comunisti, inferociti, decisero allora di raccogliere le firme necessarie per indire un referendum, al fine di abrogare quel decreto. Ma sbagliarono completamente i loro calcoli e, l’anno successivo, quando scattò l’appuntamento referendario, finirono col raccogliere solamente un 45,7% di ‘Sì’ contro il 54,3% di ‘No’. Insomma, il raffreddamento della ‘scala mobile’, insieme alla nuova redditività delle imprese pubbliche, consegnate a manager di notoria esperienza come Romano Prodi e Franco Reviglio, divennero il fattore decisivo di una vera e propria ‘rinascita economica’ dell’Italia negli anni 1983–1990, allorquando l’inflazione venne letteralmente ‘abbattuta’ al 4,6%, il Pil iniziò a crescere del 2,5% medio annuo, la borsa di Milano aumentò la propria capitalizzazione di oltre quattro volte e le nostre industrie tessili e meccaniche cominciarono a esportare a tutto ‘spiano’.

 

Conclusioni

 

In conclusione, gli italiani degli anni ‘80 erano tornati all’opulenza del primo ‘boom’ economico. Ma le ‘tare di fondo’ del nostro tessuto economico non sono mai state veramente eliminate. La principale di queste è il nostro indebitamento pubblico, connesso a molti ‘sprechi clientelari’ e a un forte eccesso di spesa pensionistica e sanitaria, il cui volume, nel 1989, ha finito col superare l’ammontare dell’intero prodotto interno lordo. Un’ascesa così vertiginosa del debito, a onor del vero, è dipesa soprattutto dal ‘divorzio’ avvenuto tra la Banca d’Italia e ministero del Tesoro, cioè dall’indisponibilità del nostro istituto di emissione a finanziare il deficit dell’erario mediante l’immissione in circolazione di nuova carta moneta. Ma tale indisponibilità ha intensificato la collocazione di titoli presso le banche e i risparmiatori privati, aveva concorso a tenere sotto controllo l’inflazione e, in un certo senso, era riuscita a stabilizzare il quadro politico. Insomma, a 35 anni dalla drammatica scomparsa di Enrico Berlinguer, riteniamo si debbano porre delle basi culturali totalmente nuove per la sinistra italiana, mettendo finalmente la parola fine a una guerra fraticida inutile, che ha fortemente penalizzato la sinistra stessa, inceppando ogni progetto per la formazione di un’unica grande forza laica, progressista, socialdemocratica e laburista. Senza un’analisi sincera su quanto accaduto veramente tra i due spezzoni storici della sinistra italiana, non potrà mai esserci la possibilità di uscire dal propagandismo e da una ‘mistica’ ancora oggi parzialmente ideologica, per approdare a un disegno più organico e complessivo di rilancio del nostro Paese, sulla base di forze equilibrate e pluraliste dotate di buon senso.

 

 

 

 

(16 giugno 2019)

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