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Imbarazzo…

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A volte ripenso alle canzoni di Giorgio Gaber. Ho sempre avuto facilità ad afferrare il senso nascosto delle cose, meno ne ho avuta a ricordare le parole: memoria fallace. E quando ripenso al senso mi sento un

po’ a disagio. Quando Gaber era ancora vivo ed incantava tante persone come me, io ero appena ventenne, ed ero entusiasta di tutto e consapevole di nulla; ascoltando le sue parole, la sua voce, e vedendo i suoi gesti e la sua presenza sul palcoscenico mi chiedevo se un giorno avrei capito fino in fondo cosa cercava di dire, il suo messaggio nascosto in profondità nei suoi testi.

 

Io funziono in modo strano, almeno credo. Mi ricordo meglio alcune sensazioni piuttosto che altre, sensazioni e profumi sono per me mille volte più vividi che le parole e le facce delle persone. I nomi poi, per carità, nemmeno a pensarci. State certi che avrò dimenticato il vostro nome nel giro di pochi minuti: vi prego di non avercela con me, non lo faccio apposta! Imbarazzante… Magari ci sentissimo tutti un po’ più in imbarazzo. Davvero, desidererei che tutti noi apprezzassimo di più questo meraviglioso sentimento, sensazione e stato: l’imbarazzo. Un momento in cui siamo forzati a rapportarci con ciò che gli altri vedono in noi e non con ciò che noi pensiamo di essere o crediamo di dare a vedere. Potremmo sicuramente obiettare che l’utilità dell’imbarazzo dipenda dal contesto sociale in cui ci troviamo e quindi non possa essere sempre a buon pro. Sono d’accordo, ma proviamo a non contestualizzare questo pensiero. Proviamo a generalizzarlo, siamo bravi a fare ciò, no? Generalizzare; è facilissimo, forse anche più facile che bere un bicchier d’acqua, sicuramente molto più semplice che prestare attenzione al singolo caso.

Impariamo, oddio è difficile – siamo nati tutti ”imparati” noi Italiani vero? – dal popolo e dalla cultura anglosassone. L’imbarazzo si ritrova sotto svariate forme. Dalla più banale, quella negativa dell’essere colti con le mani nel sacco, alle forme più complesse e sottili e taglienti, come solo l’ironia e il sarcasmo anglosassone possono essere, l’imbarazzo è uno strumento di ”autogestione” sociale innato in quel popolo. L’imbarazzo traccia limiti, descrive percorsi da seguire, guida gli intenti ed evita scivoloni imbarazzanti e quando non previene tutto ciò fa sì che il rimorso scateni il suo effetto correttivo. Per non parlare dell’imbarazzo che volutamente si provoca rompendo le regole sociali dell’etichetta, accentuando l’ironia di certe situazioni quasi eccessivamente formali e rigide: tutto ciò senza bisogno di regole scritte, senza bisogno di drammi e proclami. Questo equilibrio si autocontrolla, si corregge, un colpetto qui e poi uno lì ed eccolo stabilizzato nuovamente, come se non fosse accaduto nulla, però rinnovato nel contenuto non uguale a prima.

Il disagio che provavo allora, ascoltando la voce di Gaber al Teatro Comunale di Reggio Emilia prima ed al Teatro Storchi a Modena poi, mi si ripropone oggi, ogni giorno, ogni ora e, no no non ogni minuto, per piacere! È il disagio di allora nel medesimo modo di manifestarsi, quel sottofondo doloroso al centro dell’addome, un male sordo, come una vibrazione a bassa frequenza, però sempre lì, lui sta lì e aspetta ed intanto lavora, scava, ti arrugginisce, ti amareggia dentro. È lo stesso di allora nel modo in cui si manifesta ma al di sotto della superficie è completamente diverso. È reale, è vero, è innegabile. Solo che, a differenza di allora, di quando ascoltavo Gaber seduto sugli scranni della platea surriscaldata, oggi questo disagio parla al presente. Parla di noi, grida e urla contro di noi; contro la nostra totale e volontaria cecità, contro il nostro bieco individualismo e la nostra ipocrisia. All’epoca delle serate a teatro pensavo che Gaber parlasse di un passato che, seppure non remoto, era comunque passato. Certo, credevo io, non poteva parlare del presente e certamente ancora non poteva parlare del futuro, no? Mica era un veggente, quelli vanno in giro vestiti come il mago Otelma, non certo con l’immancabile doppiopetto blu scuro. E invece, pensa te,  Gaber ci raccontava del passato e ci preparava al futuro.

”Prof, mi scusi ma oggi non sono preparato” – quante volte ho provato ad evitare il meritatissimo 4 dell’interrogazione usando mille scuse, più o meno fantasiose. Oggi se dovessero interrogarmi come si faceva a scuola probabilmente ci proverei ancora. ”Davvero, Professoressa, sono impreparato all’Italia: non l’ho capita”; oppure ”Ero assente quando ha spiegato gli Italiani e non ho trovato gli appunti, i miei compagni di classe non me li hanno passati” – un classico delle scuse. Ma forse è proprio vero. A volte sento di non essere pronto per capire cosa ci ha reso e cosa ci fa essere quel che siamo.

In nessun’altra cultura al di fuori dell’Italia, va bene mettiamoci anche i francesi, esiste un sentimento di innata superiorità nei confronti di tutto e di tutti così grande e forte come la nostra italica presunzione. Superiorità basata su cosa? Forse su alcuni fasti del passato, non certo sul presente, considerando quanto di poco c’è rimasto di cui essere fieri. Per fare un esempio, vi racconto di questo bellissimo (all’apparenza) paesello dell’Italia centrale che negli anni 90 è stato definito da un professore di architettura dell’Università del Kentuky come ”the model of sustainable city” ovvero ”modello di città sostenibile” per le dimensioni contenute e la ”capacità di reinventarsi nel tempo”. Siccome noi Italiani siamo tutti nati ”imparati” e tali riconoscimenti sono scontati – d’altronde è ovvio come in Italia non si sta bene da nessun’altra parte e noi l’Inglese lo sappiamo benissimo – la stampa italiana riportò la notizia come ”la città più vivibile al mondo” e fu così che da pochi anni dopo questo paesello in cima al colle ha iniziato un declino culturale ed un progressivo impoverimento tanto che oggi i turisti si contano sulle dita di una mano, scacciati da musei sempre chiusi, ristoranti che servono ai turisti pasti mediocri a prezzi da capogiro, servizi inesistenti, morte sociale. Evviva  il reinventarsi! Se doveste per caso imbattervi in qualche brochure dell’APT del posto ancora oggi troverete sbandierato ai quattro venti questo riconoscimento di città più vivibile al mondo. Peccato che in 21 anni non ce sia stato alcun riconoscimento ulteriore. Peccato che il senso della valutazione del Prof. Levine non era sulla qualità della vita ma sull’abilità di chi gestiva ed organizzava ed investiva sulla vita pubblica.

Come siamo bravi noi Italiani a sederci sugli allori, a congratularci con noi stessi ed a bearci dei risultati conseguiti decenni fa per nasconderci la tristezza dei nostri giorni. Perché mi chiedo allora, non ci sentiamo in imbarazzo? Perché non ci scandalizziamo del livello penoso a cui siamo arrivati? Nooooo, in Italia si sta bene, tanto poi quando chiudi la porta di casa, rigorosamente blindata come il caveau di una banca, l’Italia resta fuori, quella vera non entra in casa. E per fortuna, sarebbe come voler aggiungere tristezza alla tristezza. Insomma un suicidio.

E allora premiamo quel bel pulsantino sul telecomando, sintonizziamoci bene e godiamoci palle, palloni, culi e tette, rigorosamente al femminile perché non siamo mica froci noi! La tristezza interiore (nell’animo come in casa) che si somma alla tristezza (degli altri come del mondo fuori la porta di casa), una che sostituisce l’altra. Chiodo sciaccia chiodo.Grazie Gaber, e scusa se non siamo preparati per l’interrogazione sulla vita. Il gatto ci ha mangiato gli appunti.

 

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