13.1 C
Milano
15.3 C
Roma
Pubblicità
Roma
cielo sereno
15.3 ° C
16.1 °
13.6 °
63 %
2.6kmh
0 %
Gio
20 °
Ven
22 °
Sab
22 °
Dom
23 °
Lun
21 °

POLITICA

Pubblicità

ALTRA POLITICA

Pubblicità

ESTERI

Pubblicità
HomeL'EditorialeLa pace concessa: teologia politica del Premio Nobel per la Pace

La pace concessa: teologia politica del Premio Nobel per la Pace

Pubblicità
GAIAITALIA.COM NOTIZIE anche su TELEGRAMIscrivetevi al nostro Canale Telegram
GAIAITALIA.COM NOTIZIE su WHATSAPPIscrivetevi al nostro Canale WHATSAPP

di Lonsito De Toledo 

Il Nobel per la Pace. Provo a esprimere un’analisi che si muove nella scia di pensatori come Carl SchmittGiorgio AgambenChantal Mouffe, e in parte Slavoj Žižek.

L’idea centrale è che il Premio Nobel per la Pace non sarebbe un riconoscimento neutro o “universale”, ma un dispositivo simbolico del potere occidentale, un meccanismo di legittimazione morale dell’ordine geopolitico dominante. L’autore descrive una trasformazione della guerra: da conflitto armato a guerra morale, dove la distinzione schmittiana “amico/nemico” non scompare ma si traveste di umanitarismo e “valori democratici”.

In questa prospettiva, i premiati diventano pedine di una narrazione globale che distingue tra chi è degno di essere considerato “umano” — secondo i criteri di democrazia liberale e capitalismo globale — e chi resta escluso, bollato come “autoritario”, “populista” o “nemico dei diritti umani”. È la logica del “campo” di Agamben, traslata nel dominio della comunicazione e della reputazione: non più recinti fisici, ma spazi simbolici in cui si esercita il potere di includere o escludere.

L’analisi della trasformazione della guerra è acuta: oggi la violenza non si manifesta solo con le armi, ma con sanzioni economiche, premi, riconoscimenti, ostracismi mediatici — forme di pressione che producono obbedienza o isolamento. Il Premio Nobel per la Pace, in questa chiave, diventa una forma “soft” di intervento geopolitico, un segnale diplomatico che orienta i comportamenti degli Stati e delle opinioni pubbliche.

È pur vero che alcuni premi Nobel (come quelli a Obama nel 2009 o a organizzazioni filo-occidentali) hanno avuto un chiaro valore politico, ma la storia del premio include anche figure di resistenza autentica e di critica del potere globale, da Martin Luther King a Malala Yousafzai, fino a Liu Xiaobo o Nadia Murad. Quindi il quadro non è monolitico: accanto all’egemonia c’è anche la possibilità del dissenso interno, della testimonianza etica che sfugge alla logica del potere.

C’è, a mio pensiero, un nodo vero: la moralizzazione della politica internazionale e l’uso del linguaggio dei diritti come strumento di egemonia. Ma la forza polemica di questo pensiero rischia di oscurare la complessità dei casi reali, dove il confine tra manipolazione e idealismo è mobile, contraddittorio, e spesso attraversato dalle stesse figure che il premio celebra.

Se volessimo tradurlo in una formula:

Non è il Nobel che misura la pace, ma la pace che misura il Nobel — e spesso lo trova mancante.

Allora entriamoci fino in fondo — perché questo pensamento, al di là dell’aspetto polemico, è in realtà una diagnosi filosofica del potere contemporaneo, e il suo lessico coincide quasi parola per parola con quello di Schmitt, Foucault e Agamben, ma anche con la critica della governamentalità morale che attraversa il pensiero di Butler e Žižek.

Partiamo da Carl Schmitt, il più scandaloso dei giuristi politici del Novecento. Nel suo Concetto del politico, Schmitt afferma che l’essenza della politica è la distinzione tra amico e nemico. Tutto il resto – ideologia, morale, religione, economia – sono solo maschere di quella decisione originaria. Quando, nel mondo moderno, la politica si “depoliticizza” e pretende di diventare morale o umanitaria, questa distinzione non scompare: viene semplicemente traslata sul piano etico. Non c’è più un nemico “politico”, ma un nemico “dell’umanità”. È esattamente ciò che il testo che hai citato denuncia: il nemico, oggi, è chi non si adegua al linguaggio universale della pace, della democrazia liberale, dei diritti umani – un linguaggio che appare neutro ma che in realtà opera come forma di esclusione.

Da Schmitt passiamo ad Agamben, che riprende e radicalizza questa intuizione. Nella sua teoria dello “stato di eccezione”, Agamben mostra come il potere contemporaneo funzioni non tanto dichiarando la guerra, ma gestendo l’eccezione: includendo l’escluso, mantenendo “in vita” ciò che è messo fuori legge. È la logica del campo, dove il potere non elimina ma amministra la vita nuda. Ecco perché il Nobel per la Pace, in questa lettura, non sarebbe un riconoscimento morale, ma un atto di sovranità simbolica: decide chi è dentro e chi è fuori dall’“umanità ordinata”, chi è “degno di pace” e chi resta confinato nella zona grigia del non umano, del barbaro, del tiranno.

Il gesto del Comitato Nobel diventa quindi una decisione sovrana travestita da atto morale. Qui la critica si fa schmittiano-foucaultiana: la biopolitica non si esercita più con la spada, ma con la gestione delle immagini, dei simboli, dei corpi che incarnano un modello di pace. Foucault, nei Corsi al Collège de France, aveva già descritto questa forma di potere come “pastorale”: il potere che guida, orienta, corregge, premia, punisce, non uccide. È il potere della cura e della selezione morale, e in questo senso il Nobel diventa un sacramento laico della governance globale.

La guerra non scompare, si trasforma. Non più carri armati, ma sanzioni, premi, esclusioni, riconoscimenti.

È la guerra amministrata. Non si combatte più il nemico con le armi, ma con il linguaggio della legittimità e della visibilità. In termini foucaultiani, non è più il potere di far morire, ma il potere di far vivere e lasciare morire: chi riceve il Nobel viene incluso nel circuito della visibilità umanitaria, chi non lo riceve – o peggio, chi viene designato come “non democratico” – viene lasciato morire nel silenzio mediatico o nella damnatio politica.

Quando penso a “imperio morale”, evoco proprio questa nuova forma di potere: non più un impero territoriale, ma un impero della coscienza, dove la sovranità si esercita attraverso la moralità, la compassione selettiva, la certificazione della bontà. È, per usare le parole di Foucault, una “microfisica del potere” che agisce a livello simbolico e affettivo.

E tuttavia, come direbbe Žižek, dietro l’umanitarismo si nasconde il godimento dell’ordine stesso: l’Occidente ha bisogno del male per confermarsi come bene. Ha bisogno di assegnare premi e costruire martiri, perché ogni martire o ogni dissidente premiato serve a riaffermare il mito di una civiltà che salva, redime, include. Il Nobel diventa così una liturgia della redenzione, un atto di autoriconferma.

Ma, attenzione: questa diagnosi non implica che ogni premio Nobel sia “falso” o manipolato. Piuttosto, mostra come nessun atto simbolico sfugga al potere. Anche un riconoscimento autentico — pensiamo a Mandela o a Liu Xiaobo — finisce, volente o nolente, per essere riassorbito nel circuito della legittimazione globale. È la condanna di ogni gesto etico nel mondo della comunicazione totale: anche la purezza diventa strumento.

E così questo pensamento non è semplicemente anti-occidentale: è una critica della forma moderna del potere morale, della sua pretesa di neutralità. Mostra come la pace, oggi, sia un dispositivo, non una condizione: un modo di amministrare la guerra con altri mezzi.

Come direbbe Schmitt,

“Chi decide sulla pace decide anche sulla guerra.”
E nel mondo contemporaneo, chi consegna il Nobel non distribuisce la pace — la definisce.

Con la nomina di María Corina Machado il discorso precedente esplode nella realtà, come se la teoria fosse diventata cronaca.
Quello che prima sembrava un esercizio di critica ideologica — la “sovranità simbolica”, la “guerra moralizzata”, la “filantropia imperiale” — trova in questo Nobel un caso da manuale di legittimazione geopolitica travestita da riconoscimento etico.

Provo a mettere ordine, mantenendo l’impianto schmittiano-foucaultiano-agambeniano che ho costruito:

María Corina Machado, figura centrale dell’opposizione venezuelana, rappresenta da anni la narrativa liberale e filo-occidentale in un Paese che si definisce “bolivariano”, quindi storicamente anti-statunitense. La sua candidatura al Nobel era stata sostenuta da ambienti diplomatici europei e americani, e la sua vittoria viene letta — anche da osservatori non ostili — come una presa di posizione simbolica contro Maduro.
Questo non invalida la legittimità del suo impegno, ma conferma quanto il Nobel funzioni da atto di riconoscimento politico più che da giudizio etico universale. Il premio diventa una dichiarazione diplomatica mascherata da premio umanitario, un messaggio: “questa è la parte giusta della storia”.

Foucault direbbe che siamo nel pieno della governamentalità morale: il potere non si impone, ma guida attraverso il bene. Machado viene così costruita come figura pastorale — una salvatrice, una garante di “transizione pacifica” — ma anche come segno di disciplina globale: chi segue la via democratica occidentale sarà premiato, chi resiste verrà sanzionato o delegittimato.
È il modello tipico del potere “biopolitico”: non punisce apertamente, ma ordina il mondo attraverso la distinzione morale tra buoni e cattivi, tra “umanità ordinata” e “zona d’eccezione”.

Come già accadeva con Liu Xiaobo in Cina, Aung San Suu Kyi in Myanmar o Alexei Navalny in Russia (oggi canonizzato mediaticamente come santo laico della libertà), il Nobel costruisce figure di martirio politico funzionali alla narrativa globale. Non si tratta di negare la sofferenza o il coraggio di queste persone, ma di riconoscere che il sistema occidentale le trasforma in emblemi, in “corpi sacralizzati” che servono a ribadire la propria egemonia morale.
Agamben direbbe: l’Occidente governa il mondo attraverso la sacralizzazione della vittima.

Il paradosso è che il Premio “per la pace” coincide con una presa di posizione in una guerra non dichiarata. Non c’è neutralità: il riconoscimento di Machado è un modo per non premiare qualcun altro, cioè per mantenere la linea di separazione tra chi è dentro e chi è fuori dall’umanità democratica.
La “pace” diventa così un’arma semantica, una parola che ordina, divide, orienta le alleanze.
Schmitt avrebbe sorriso amaramente: la depoliticizzazione è solo la forma più sofisticata della politica.

In chiave post-secolare, potremmo dire che il Nobel per la Pace ha sostituito le antiche canonizzazioni. È un atto liturgico, una beatificazione laica.
Il Comitato norvegese, riunito in un palazzo neoclassico a Oslo, esercita una sorta di magistero morale globale, decidendo chi incarnare come santo e chi lasciare nel purgatorio mediatico. Machado, in questo schema, diventa santa del liberalismo redentore, martire benedetta dall’Occidente, mentre la sua figura viene inscritta nel pantheon dei “giusti” compatibili con l’ordine economico mondiale.

Tornando al pensamento iniziale, ora suona quasi profetico.

“Dietro il volto sorridente della filantropia liberale si nasconde la funzione ordinatrice di un impero morale.”

Con Machado, il Nobel si mostra per ciò che è: un dispositivo che amministra il significato stesso di “pace”, definendo chi merita di incarnarla.
In questo senso, il premio non misura la pace — la produce come narrazione, come racconto del mondo in cui il bene coincide sempre con chi parla la lingua dell’Occidente.

In fondo, è la vecchia storia della “missione civilizzatrice” riformulata in chiave liberale: non più “convertire i barbari”, ma “premiare i democratici”.
Solo che oggi le crociate non hanno più eserciti, ma cerimonie di premiazione trasmesse in diretta mondiale..

Allora chiudiamo in gloria questo pensamento, davvero — perché la storia del Premio Nobel per la Pace è una parabola teologica del potere moderno: nasce come gesto filantropico, si evolve in strumento politico, e oggi si compie come rito globale di consacrazione morale.
La sua traiettoria racconta la metamorfosi dell’Occidente, dal colonialismo armato al colonialismo simbolico: l’impero non conquista più territori, conquista significati.

Nel 1895 Alfred Nobel, inventore della dinamite, firma il suo testamento a Parigi: i frutti della sua fortuna dovranno andare a chi “avrà maggiormente contribuito al bene dell’umanità”. La formula è già ambigua. Nobel è un uomo tormentato dalla colpa — accusato dalla stampa francese di essere “il mercante della morte” — e la sua fondazione nasce come espiazione morale.
Il premio per la pace, affidato al Parlamento norvegese (non svedese: già qui una scelta politica), assume da subito il ruolo di sacramento laico: compensare la distruzione industriale con la benedizione morale.
È l’inizio del doppio registro che non verrà mai più sciolto: tecnologia e bontà, potenza e umanità, capitale e redenzione.

Durante il XX secolo, il Nobel per la Pace oscilla tra due poli:
da un lato, i veri apostoli della non violenza (Bertha von Suttner, Gandhi — che, ironia tragica, non riceverà mai il premio); dall’altro, gli uomini di Stato che incarnano la pace come ordine, cioè la stabilizzazione dell’impero.
Già nel 1906, quando lo riceve Theodore Roosevelt, architetto dell’espansionismo americano, il meccanismo è chiaro: il Nobel non premia la pace, ma la capacità di imporre un equilibrio.

Con la Guerra Fredda, la pace diventa il nome di una battaglia ideologica.
Premiare un dissidente sovietico come Andrej Sacharov non è un gesto umanitario, è una dichiarazione di appartenenza.
Da allora, il Comitato Nobel agisce come una bussola morale dell’Occidente: ogni laureato indica chi è dentro e chi è fuori dal perimetro della civiltà. È una nuova cartografia del mondo, disegnata non con i cannoni ma con i trofei.

Con la fine della Guerra Fredda, l’Occidente non ha più un nemico definito.
Nasce allora la stagione della pace amministrata, quella che Foucault avrebbe riconosciuto come “biopolitica globale”.
Il Nobel diventa un dispositivo di governance: orienta le opinioni pubbliche, seleziona le figure da canonizzare, regola il discorso internazionale.
Da Aung San Suu Kyi (1991) a Obama (2009, premiato preventivamente “per le speranze suscitate”), da Liu Xiaobo (2010) a Machado oggi, il premio non misura la realtà della pace, ma la direzione della morale geopolitica.

Ogni assegnazione risponde a un bisogno di ordine simbolico:
chi incarnare come vittima, chi come redentore, chi come nemico.
Non più guerra dichiarata, ma guerra narrata.
Non più armi, ma icone.

Nel tempo, il Nobel per la Pace ha assunto la forma di una vera e propria liturgia mediatica.
L’annuncio da Oslo, le lacrime, la cerimonia, la musica, il discorso davanti ai dignitari: tutto riproduce la grammatica del sacro.
C’è l’atto di grazia (l’annuncio), il miracolo (la redenzione politica del premiato), e l’eucaristia televisiva (la trasmissione globale).
La “pace” diventa merce simbolica, un marchio di garanzia morale esportato nel mondo, con la stessa forza con cui il capitalismo esporta tecnologia e cultura.

E poiché nel mondo contemporaneo visibilità equivale a verità, chi riceve il Nobel è la pace — per definizione.
Il premio funziona come un sistema di veridizione (direbbe Foucault): ciò che viene riconosciuto esiste, ciò che non viene nominato scompare.
È la dimensione sacramentale del potere moderno: la realtà non è più ciò che accade, ma ciò che viene consacrato.

E così arriviamo a oggi.
Con María Corina Machado, il Nobel per la Pace compie il suo destino: diventa esplicitamente uno strumento di amministrazione geopolitica travestito da riconoscimento morale.
La sua figura è perfetta per il rituale: donna, oppositrice, vittima e protagonista, capace di rappresentare al tempo stesso la vulnerabilità e la determinazione liberale.
Come ogni laureata ideale, Machado non è premiata solo per ciò che fa, ma per ciò che significa: è la pace narrata come democrazia di mercato, la libertà come adesione al modello occidentale.

In questa luce, il Nobel non è più un premio — è una sentenza simbolica sul mondo.
Stabilisce chi parla in nome dell’umanità e chi no.
È l’ultimo tribunale morale della modernità, e come tutti i tribunali morali, non giudica i fatti ma le fedeltà.

Se dovessimo riassumere l’intera storia, potremmo dire che il Nobel per la Pace ha attraversato tre età:

  1. L’età dell’espiazione – la colpa industriale che si fa filantropia.
  2. L’età della missione – la pace come civilizzazione, l’impero come redenzione.
  3. L’età del dispositivo – la pace come amministrazione globale dei segni.

In quest’ultima fase, quella in cui viviamo, il premio è diventato ciò che Foucault avrebbe chiamato una forma di pastorato universale: un potere che guida gli uomini non imponendo leggi ma indicando esempi.
E come in ogni religione, chi assegna i simboli non è neutrale: è il sacerdote dell’ordine che i simboli riproducono.

La storia si chiude, appunto, “in gloria”: una gloria che non è più divina ma mediatica, non più spirituale ma economica, non più pacifica ma pacificata.
Il Premio Nobel per la Pace, da gesto penitenziale, è diventato il Vangelo dell’egemonia morale — un libro aperto che racconta chi siamo, o meglio, chi dovremmo essere per continuare a far parte del mondo “ordinato”.

Tutto questo in buona pace e gloria per Donald Trump che il Nobel per te Pace lo aveva chiesto a viva voce.

E qui la commedia del potere tocca il suo vertice.
Perché l’immagine di Donald Trump che reclama il Nobel per la Pace come se fosse un reality trophy — “lo merito più di Obama!” — è la caricatura perfetta della logica che abbiamo descritto: l’uomo che pretende la beatificazione non per la pace, ma per l’audience.

È la forma estrema della trasformazione del premio in simbolo performativo, dove l’essere buono si misura in visibilità, e la grazia divina si traduce in consenso mediatico.
Trump, in fondo, non ha frainteso il Nobel: ne ha solo colto la vera natura — quella di atto di comunicazione globale, di liturgia televisiva, di certificazione morale emessa dal mercato delle immagini.

La sua auto-candidatura gridata, il suo bisogno di essere “visto come pacificatore”, rivelano ciò che l’intero sistema tiene nascosto:
che nel mondo contemporaneo la pace non è un valore, ma un brand.

Trump, nel suo kitsch titanico, non chiede di essere santo: chiede di essere trend topic del paradiso.
E in un certo senso lo è già, perché nel teatro dell’egemonia simbolica, anche il desiderio di pace — espresso come vanità — diventa un atto politico.

Forse, se Nobel fosse vivo, gli avrebbe detto:

“Hai ragione, Donald. Non è questione di merito. È questione di sceneggiatura.”

La pace, in fondo, non è più ciò che si costruisce:
è ciò che si concede.

 

 

 

(11 ottobre 2025)

©gaiaitalia.com 2025 – diritti riservati, riproduzione vietata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Iscrivetevi alla nostra newsletter (saremo molto rispettosi, non più di due invii al mese)

Torino
nubi sparse
9.7 ° C
11.2 °
9.3 °
90 %
0.5kmh
77 %
Gio
14 °
Ven
13 °
Sab
15 °
Dom
12 °
Lun
10 °
Pubblicità

LEGGI ANCHE