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Umanità nel lavoro: le contraddizioni di fondo

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di Vanni Sgaravatti

La motivazione ideale all’impegno lavorativo dovrebbe essere intrinseca, cioè legata al piacere di farlo, all’autorealizzazione, al piacere della ricerca e della sfida che lo stesso impegno pone.

Ma, solo le persone che sono già pagate per un “giusto” corrispettivo e che già operano in un buon clima interno nel luogo di lavoro potrebbero aspirare a porsi obiettivi “intrinseci”, e non puntare solo a ricompense estrinseche: premi in denaro, miglioramenti della posizione lavorativa.

Tuttavia solo motivazioni intrinseche possono davvero promuovere un’umanità nelle relazioni, perché sono quelle che, richiedendo caratteristiche di autonomia e padronanza delle proprie competenze, promuovono relazioni tra soggetti indipendenti.

Le motivazioni estrinseche, per dirla con chiarezza: “il bastone e la carota”, presuppongono, di fondo, che l’uomo, senza di quelle, non avrebbe interesse a compiere un lavoro e starebbe inerte, dedito alla sopravvivenza di sé stesso. Un assunto contrario a tutta la conoscenza che abbiamo sugli esseri viventi che sono geneticamente propensi alla ricerca. Un assunto preso a prestito da una teoria non corretta, da chi, nella pratica, ha bisogno di giustificare il presunto vantaggio di avere uomini controllabili e conformi al proprio volere.

Nel contesto del “bastone e carota” e dell’assunto di base sulla natura umana che lo giustifica, allora il controllo è necessario, perché altrimenti le persone tenderebbero a non lavorare. Ed il controllo è facilitato se si trasformano le persone in esecutori di procedure, con compiti algoritmici, che assicurano una costanza del risultato e, quindi, una standardizzazione del prodotto. E, già così, si intuisce il principio del “doppio rispecchiamento”: si creano tecnologie artificiali per potenziare l’uomo, che poi si rispecchia nella propria creazione tecnologica, imitandola e utilizzando metafore meccaniche per interpretare la realtà che lo circonda.

Ma promuovere l’autonomia vera del lavoratore, condizione necessaria per essere un umano, significa operare in un contesto organizzativo in cui sia attuata con sistematicità la “delega”, che significa accettare l’errore dell’altro senza intervenire direttamente a correggerlo. Questo è possibile solo se si considera l’altro come un fine e non come uno strumento per qualcos’altro, altrimenti se l’altro è uno strumento per raggiungere un obiettivo di gruppo o dell’organizzazione (altrimenti detto agente artificiale), la delega diventa problematica: come non interferire correggendo l’errore dell’altro, al fine di evitare un errore e, quindi, il rischio di mancare un obiettivo del gruppo?

E non è la nobiltà o moralità degli obiettivi che ti assicurano di non considerare l’altro uno strumento e, quindi, per limitare l’umanità della relazione. Il fine non giustifica i mezzi, se si vede la promozione verso il bene dell’uomo come un processo e non come un risultato da ottenere una volta per tutte. E’ sempre il rapporto tra umano e agente artificiale (le organizzazioni, i gruppi) che si porta dentro una ontologica contraddizione tra agire per il gruppo, percepito come entità a sé stante, e agire per la valorizzazione dei singoli individui che lo compongono.

Un ostacolo alla valorizzazione dell’umano nel lavoro è dovuto, perciò, all’incapacità di attuare una reale delega, alla difficoltà a ragionare per processi e ad accettare l’incertezza. Tutte componenti necessarie per promuovere relazioni tra soggetti dotati di autonomia e discrezionalità decisionale. Quindi, da questo punto di vista, ciò che ostacola l’introduzione della componente umana nel lavoro è una difficoltà, una incapacità nel sostenerla. Però, da un altro punto di vista, l’altro tipo di ostacolo all’umanità nel lavoro è determinato dall’interesse egoistico, quello che promuove lo sfruttamento degli altri da parte di chi, per ruolo, ne ha la possibilità, magari giustificandolo, a posteriori, con la morale dell’efficienza e dell’efficacia che porterebbe vantaggi a tutti: crescita economica, incremento dei posti di lavoro.

C’è un altro ragionamento che si può dedurre da questa riflessione, che è, a mio avviso, ancora più sottile.

Il sistema, il “signor sistema”, è un soggetto artificiale emergente che collassa nel soggetto individuale solo in casi particolari come quelli avvenuti, ad esempio, con Hitler che non sosteneva solo: “Io sono il capo della Germania”, ma: “Io sono la Germania”.

Al di fuori di questi casi limite, il sistema non ha sentimenti, non intende sfruttare le persone, ma cerca l’efficienza in base alle caratteristiche del sistema, che è artificiale per definizione. Per il sistema, lo sfruttamento delle persone è solo strumentale per il fine di ridurre il mondo ad un insieme di soggetti artificiali, con l’introduzione di alcune correzioni per evitare che le macchine-uomini si rompano. Non potrebbe spingere in una direzione diversa: è artificiale per definizione: non nasce in natura la pianta che produce organizzazioni percepite dai componenti come soggetti autonomi.

Per gli umani, spinti a sfruttare gli altri, invece, il rendere artificiali gli uomini è uno strumento per il fine di appropriazione e arricchimento. E sono anche più temibili se lo fanno inconsapevolmente. Il sistema, per sua stessa natura, e gli uomini sfruttatori si completano in un circolo vizioso per l’umano, ma è il sistema che, rappresentando il contesto culturale in cui crescono e agiscono gli uomini sfruttatori, costituisce la causa prima.

Attaccare i componenti interni del sistema artificiale che noi stessi abbiamo creato (gli umani-sfruttatori) non cambia la cornice. Dovrebbe essere fatto come compito normale di giustizia, ma il sistema avrebbe comunque una capacità rigenerativa e riparativa e, in nome dell’efficienza tecnica, tenderebbe a riprodurre le condizioni per altri sfruttamenti. Ed è per questo che il tema culturale sul dolore burocratico è un tema che emerge sempre più come centrale. Perché la burocrazia è il linguaggio con cui l’artificiale dialoga con l’umano: l’agente artificiale, cioè il sistema, si esprime tramite la burocrazia. Allineare la propria cognizione al mondo definito dalla burocrazia del sistema, permette di alimentare un mondo fatto di automi, almeno per la maggior parte dei lavoratori, anche se dotati di un certo livello di discrezionalità decisionale.

E, quindi, il rapporto tra sistema e uomo, tramite la burocrazia costituisce il rapporto centrale tra individuo e società, che caratterizza la struttura della stessa e non la sovrastruttura (direbbe Marx), e che, proprio grazie a questa configurazione artificiale, favorisce le condizioni per lo sfruttamento. Quindi, la burocrazia, intesa come regole di classificazione del reale, non è solo un fattore di appesantimento della vita sociale, ma è la cifra della stessa vita sociale e condiziona la nostra stessa cognizione del mondo.

Ad aumentarne l’importanza, se questo non bastasse, ci sta quello che sta avvenendo nei tempi contemporanei, in cui l’intelligenza artificiale ha un rapporto diretto non con i singoli umani, ma con le organizzazioni, cioè con gli agenti artificiali, che tendono, attraverso di essa (la I.A.) ad automatizzare i desideri, le preferenze, le decisioni.

E così il cerchio, la connessione tra “artificiali” chiude il cerchio e, per questo, si fa sempre più inquietante.

Immagine generata con IA

Questo rapporto mefistofelico trova, inoltre, la sua efficacia nella stessa caratteristica costitutiva della burocrazia, che disegna i rapporti tra i singoli ruoli in cui la società è frammentata, favorendone questa frammentazione. E più la società diventa complessa rispetto alla capacità di comprenderne il senso, più la frammentazione dei ruoli e il sistema informativo che li connette, diventa poco trasparente, rispetto alla direzione che sta percorrendo e che dovrebbe essere compresa e condivisa dai più, originari artefici e attuali beneficiari.

Naturalmente non è possibile immaginare un mondo senza burocrazia, né sarebbero rivoluzionari approcci che bypassano le regole senza cambiarle. Immaginare di fare senza la burocrazia significherebbe immaginare di non avere un pensiero simbolico, di vivere, potendo fare a mendo di semplificare il mondo attraverso categorie. Come sarebbe possibile cercare una mela in una foresta senza indirizzare la ricerca verso l’albero di mele, condividendo con i ricercatori la definizione di “albero di mele”. Ma solo la filosofia, intendendo con filosofia un processo relazionale e condiviso finalizzato alla comprensione dei significati che attribuiamo alle categorie e non tanto l’applicazione di categorie filosofiche apprese studiando storia della filosofia, può aiutarci a promuovere un continuo cambiamento delle stesse regole burocratiche e, a sentirci nuovamente protagonisti, in quanto promotori del cambiamento continuo.

Concludendo e ritornando alla prima riflessione, direi che senza questo processo “filosofico”, è inutile parlare di pratiche di umanità nel lavoro, che, se orientate all’efficienza e alla crescita fine a sé stesse, non possono che definire come aria fritta qualsiasi ragionamento che, “filosoficamente”, ne esplori il vero significato.

Sarebbe, quindi, una fatica di Sisifo introdurre pratiche di “umanità” senza queste riflessioni condivise, pratiche che lavorerebbero solo sulla superficie del problema.

E non tanto e solo perché parlare di relazioni umane nel lavoro va di moda, ma per la stessa tendenza costitutiva del linguaggio del sistema: la burocrazia non è, per definizione umana, quando viene fissata in una regola e non in un processo dinamico a misura dell’uomo.

 

 

(10 agosto 2025)

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