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La fiducia sociale nell’era del cambiamento epocale. Il difficile rapporto tra dati e intuito, tra individuo e istituzioni

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di Vanni Sgaravatti, #gaiambiente

Nel suo ultimo libro Piketty racconta che per circa un secolo i Francesi, a partire dalla rivoluzione, si erano convinti che la società fosse composta da tanti piccoli proprietari che avevano sostituito clero e nobiltà. Questa era una ragione che giustificava l’opposizione alla tassazione progressiva (tasse più alte proporzionalmente a chi è più ricco).

Si legge che nei primi del ‘900, a fronte di risultati dei primi censimenti, che riportavano come la distribuzione della proprietà fosse persino più concentrata che nella Francia prerivoluzionaria, il parlamento, pur condizionato dai proprietari, dovette approvare tale tassazione progressiva.

Si dice: “di fronte a dati evidenti”. Se questo avvenisse oggi, verrebbero contestate le fonti e si parlerebbe di dittatura degli esperti delle scienze sociali. Questa è la questione inquietante di questi tempi. Una volta potevi parlare con un amico che aveva una visione diversa della realtà, principi diversi, anche se basati su una diversa interpretazione della realtà. Tu tendevi politicamente da una parte, lui dall’altra: una relazione era possibile se non ti occupavi di “politica”.

Oggi la politica entra in tutti i problemi della vita quotidiana, compresa la salute e le relative ansie, proprio quando non ci sono più arbitri, le istituzioni di riferimento sono contestate dalla parte a cui non piacciono i dati che riporta. Certo, i dati possono essere elaborati e interpretati, ma non siamo pronti e educati a quella disciplina che permette una coerenza logica tra premesse, ipotesi e conclusioni. Ognuno parla di vera scienza, la propria (qualcuno citando fonti scientifiche magari riportate dal giornale “la verità”. Il titolo, un programma)


Individuo, collettività, istituzioni: un difficile rapporto

L’utilizzo, in campo sociale, sanitario o economico, di modelli previsionali semplici non perde di precisione di stima rispetto a modelli più complessi.

Un modello è semplice, in questo contesto, o perché i pesi dei predittori (quelli che misurano l’importanza di ogni predittore nel prevedere il fenomeno) sono tutti uguali oppure perché il numero dei predittori è basso (un predittore è una variabile collegata al fenomeno che vogliamo prevedere: ad esempio numero di volte in cui un imputato non si è presentato alle udienze oppure età dell’imputato rispetto alla previsione di un esito infausto nel concedere libertà su cauzione).

In ogni caso, anche una minima perdita di precisione, renderebbe comunque il modello semplice più vantaggioso per la sua facilità di uso. In questo senso, è sempre un problema di bilanciamento, quello tra precisione e facilità d’uso, rispetto ad un’efficacia di previsione, misurata statisticamente (% di sbagliare, a lungo andare).

Si pensa che parlare, nei casi, ad esempio, di giustizia o di sanità, di formule statistiche sia più “freddo”, rispetto all’intuito umano dello specialista, ma si è dimostrato che, nella popolazione, in realtà, il metodo statistico dà risultati più giusti e quindi più umani, spesso perché meno influenzato dalla variabilità casuale dei nostri stessi giudizi dovuti a fattori personali, come l’umore o altro (si pensi che, secondo ricerche consolidate negli Usa, per gli stessi identici casi e reati, le sentenze sono andate dai 3 ai 20 anni).

Il problema è che i cosiddetti metodi statistici (calcoli per aggregare valutazioni comunque umane, sui singoli fattori) sono più giusti in media e a lungo andare.

Ma noi non lo accettiamo facilmente: ci sentiamo unici e non capiamo, intuitivamente, che non siamo unici ad essere unici. Quando parliamo di concetti ci costruiamo istintivamente immagini nella mente e, per farlo, costruiamo e ci identifichiamo con singoli soggetti immaginari, singole storie e non ci identifichiamo immediatamente con la “popolazione” (concetto statistico sfuggente all’intuito). A meno che, quel concetto, ad esempio “la popolazione”, non lo immaginiamo come la somma di tanti “unici”. Ma non è così: la somma di tanti unici non fa l’insieme della popolazione.

In fondo, dietro ai nobili motivi che adduciamo per la nostra resistenza all’utilizzo della statistica (presunta spersonalizzazione dell’esperienza e del magico intuito del singolo), si nasconde un incontenibile, anche se comprensibile, narcisismo.

Da una parte la coscienza della nostra esistenza e poi dei nostri diritti come singoli e unici, dall’altra un narcisismo egoico che ci impedisce di vedere il senso della nostra unicità non solo nelle relazioni con l’altro, ma nell’insieme delle relazioni con gli altri, che sfumano nella moltitudine.

Un concetto che viene vissuto dai singoli solo attraverso regole e riti sociali condivisi e, che, senza i quali, si perde nell’indistinto e nell’ideale dell’immaginario individuale.

Molti di noi vivono nella convinzione che il mondo sia come appare, da qui a credere che gli altri vedono il mondo come noi, il passo è breve. Convinzioni come questa ci danno l’impressione che esiste una realtà condivisa. Raramente la mettiamo in discussione. In ogni momento abbiamo un’interpretazione del mondo che ci circonda e, di norma, non ci sforziamo più di tanto per trovare alternative plausibili. Ci basta un’interpretazione che percepiamo come vera: non affrontiamo la vita, immaginando modi alternativi di vedere la realtà (Kahneman “Rumore”). Non siamo consapevoli neppure che le stesse situazioni sono giudicate in modo differente da noi stessi, in momenti diversi (variabilità intrapersonale). Però ci ostiniamo e ci aggrappiamo alla “verità” di quello che ci appare, quasi avessimo bisogno di trovare nella realtà un punto fermo che ci possa confermare la “fermezza” della nostra identità. E con la stessa ostinazione pensiamo che gli altri non possono altro che “vedere quello che vediamo noi” e che se non lo fanno è perchè o non hanno le informazioni giuste, o non hanno studiato o hanno interessi per non riconoscere quella realtà oppure ci stanno prendendo per il … naso.


L’affidabilità delle fonti

E, a proposito di riti e procedure sociali condivisi, mi chiedo quanti cittadini ben informati che discutono di green pass e libertà abbiano mai letto la procedura che regola le attività della commissione dei farmaci.

Sono molto complesse le regole di funzionamento e lo sono altrettanto i requisiti per la selezione e la rotazione. Deve essere assicurata la professionalità, l’indipendenza dimostrata, la multidisciplinarietà, la sottoscrizione di impegni alla mancanza di qualsiasi conflitto di interesse.

Non è il caso di descrivere la lunga procedura, basta raccontare il fatto che una volta, un dirigente di un’industria farmaceutica cercò di informarsi sull’esito di un’approvazione di un farmaco, dimostrando così di conoscere l’ordine del giorno di una riunione della Commissione. Molto probabilmente un dottore della commissione si era fatto sfuggire l’informazione parlando con un amico, informatore medico scientifico che era venuto in studio a parlargli di farmaci. Non sapendo chi potesse essere, sono stati fatti dimettere tutti.

Ora sappiamo bene, soprattutto in quanto italiani, che fatta la regola si trova sempre l’inganno, ma quale alternativa ho io, semplice cittadino, per quanto acculturato, se non credere alle regole che accreditano le voci della “scienza ufficiale”? Fidarmi della plausibilità di ragionamenti di amici e conoscenti del tipo: “chiediti perché spingono su questo o quello? Il movente dell’interesse personale è evidente” oppure “mi sono documentato, me lo ha detto il mio amico esperto, quella è vera scienza, fidati!”.

Cioè dovrei fidarmi sulla base della plausibilità del movente e soprattutto del rapporto di simpatia e amicizia che ho con chi mi dice “fidati”?

Certo potrei e dovrei leggere le sue fonti, che inevitabilmente, essendo meno accreditate, meno “dimostrate” avrebbero bisogno di una conoscenza diretta di tutti i ragionamenti logici e dei dati a supporto. E quando mai questo è possibile?

È anche vero che questa constatazione può essere presa a dimostrazione che la forza della scienza ufficiale sta proprio nell’essere “ufficiale”. Ma così è se vi pare: se il cambiamento di rotta non fosse complicato, non avesse bisogno per imporsi di una maggior dose di immaginazione e di coraggio, ma anche di fatica e impegno nella dimostrazione di evidenze non si parlerebbe di cambiamento, ma di caos, senza un orientamento alle decisioni.

 

(17 settembre 2021)

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