di Mila Mercadante twitter@mila56170236
Sospesi sull’orlo del nulla e travolti da un’ansia da dissolvimento abbiamo una sola certezza granitica: il cibo. E’ diventato un ciuccio, è la tetta di mammà. Sei preoccupato? Mangia che ti passa. Si parla solo di cibo, il cibo è business, cultura, orgoglio nazionale, turismo, storia, non più necessità ma oggetto di culto. Il cibo ha sancito una volta per tutte la divisione ineluttabile dell’umanità in due categorie: quelli che mangiano poco e male e quelli che mangiano molto e sano. E’ in atto una controrivoluzione che comincia nelle cucine super attrezzate del piccolo schermo, prosegue con la costruzione di costosissime cattedrali del cibo e finisce con l’invito sempre più pressante a fare uso di alimenti scaduti, quelli con la dicitura “consumare preferibilmente entro”: non fanno male alla salute, d’accordo, ma hanno perduto indubbiamente tutte le loro proprietà nutritive.
Nelle nostre cucine è entrato il glamour attraverso il linguaggio degli chef famosi, ricchissimi e nervosi che occupano le televisioni 24 ore su 24, divi che le salsine le chiamano riduzioni, roux, vellutate, mirepoix e demi-glace, e che quando sovrappongono le melanzane a fette per la parmigiana dicono “sto accavallando” e quando sistemano il cibo in un piatto lo dressano. Grazie a loro il mestiere del cuoco fa tendenza, è la massima aspirazione di giovanissimi infatuati che allontanano le mamme dai fornelli e si mettono a sperimentare davanti a un pubblico di amici-cavia. Si sono mai visti in passato tanti ventenni interessati all’argomento? I media non si stancano di insegnarci ad amare e consumare l’unica cosa che conti, il cibo: ci invogliano a comprarne di più perché in base ai calcoli dell’industria alimentare pare che sul mangiare siamo avari, eppure nello stesso tempo ci rimproverano severamente per essere inguaribili spreconi.
I monumenti eretti in onore del turbocapitalismo ce li spacciano per protettorati dei piccoli agricoltori e dei loro prodotti d’eccellenza. Banchieri, industriali, imprenditori, politici, sono tutti uniti nella cordata a favore della fiera permanente del mangiare e del bere, del rimbambimento gastronomico, del contadino usato come personaggio teatrale di una commedia dalla cui rappresentazione traggono vantaggio soltanto i commercianti dell’agroalimentare, pornografi bravissimi nell’arte di mescolare le carte: sono proprio loro i primi a parlare di tutela dell’ambiente e di crociate contro la fame. L’immenso FICO (Fabbrica Italiana Contadina, perla di Eataly World) è nato da un’idea di Farinetti e Segré, renziani docg. Del primo sappiamo anche troppo: che è una colonna portante del precariato, che gli assegnano gli appalti senza gare, che è il migliore esportatore del made in Italy sulla piazza e che con la sua abilità riesce a vendere perfino barattoli di Real Shit (si, la cacca) a 8, 99 euro per i cultori dell’orto biologico. L’ultima notizia che lo riguarda è che negli stores Eataly di Genova e Bari sono stati avvistati olii e birre di alta gamma scaduti da settimane o addirittura da 6 mesi, ma sicuramente i distratti che li hanno acquistati li hanno pagati a prezzo pieno. Del secondo – già presidente del Caab – si sa che è presidente dell’ottimo Last Minute Market, e che intorno alla sua figura si muove tutto il settore del riciclo e della ridistribuzione di libri, farmaci e alimenti sottratti al cassonetto dei rifiuti. Una coppia perfetta, il giusto mix. Uno pensa agli affari, l’altro garantisce un’economia social, lo smaltimento politically correct e il liberismo generoso e compassionevole, roba da mettere ko tutti i criticoni.
Il presente e il futuro prossimo, caratterizzati dalla precarietà, dall’impoverimento delle classi medie e dalla fame nel mondo, creano il contesto per una narrazione basata sulla lotta allo spreco e all’iniquità che seduce con la retorica terzomondista. Riciclare gli alimenti è indispensabile e offre certamente enormi vantaggi, ci fa risparmiare miliardi, riduce le emissioni di CO2 di oltre 290 mila tonnellate ogni anno e permette di impiegare alcuni alimenti (per esempio le carni) – opportunamente trattati – nel settore chimico e in quello delle energie rinnovabili. Il fatto che non persuade è che si punta a smaltire un colpevole sovrappiù anche col cinismo di un ragionamento che lì per lì non fa una piega: milioni di persone non si nutrono a sufficienza?, accumuliamo ogni giorno tonnellate di alimenti scaduti ma non tossici per l’organismo?, bene, allora quei cibi destiniamoli ai poveri. La morale della favola è semplice: il sistema globale di sovrapproduzione degli alimenti – unico responsabile di sprechi e disuguaglianze – piuttosto che modificare radicalmente pratiche che distruggono l’ambiente e deformano gli equilibri globali, consegna l’eccedenza alle fasce disagiate della popolazione sotto forma di generoso dono, imponendo loro di abituarsi alla scarsa qualità degli alimenti. Chi non può spendere per mangiare deve fungere da pattumiera di un mercato impazzito.
(1 giugno 2015)
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