di Effegi
Nel 2024, l’Italia registra circa 2.500 nuove diagnosi di infezione da HIV, una cifra che, pur inferiore alla media europea occidentale, rimane stabile negli ultimi anni. Questo dato apparentemente contenuto nasconde una realtà più complessa: oltre il 60% delle diagnosi avviene in ritardo, quando l’infezione è già in fase avanzata, e in molti casi l’AIDS è già presente al momento della scoperta. L’impatto non è solo medico, ma sociale: il virus continua a circolare silenziosamente, colpendo chi non sa di essere positivo e lasciando intendere che la strategia nazionale per raggiungere l’obiettivo “infezioni zero” sia, di fatto, ancora lontana.
L’Italia possiede strumenti scientifici e terapeutici all’avanguardia: terapie antiretrovirali efficaci, test rapidi e affidabili, la profilassi pre‑esposizione (PrEP) che riduce drasticamente il rischio di contagio. Tuttavia, l’uso di questi strumenti resta insufficiente, frammentato e scarsamente diffuso. LILA e altre associazioni denunciano da anni la mancanza di campagne informative pubbliche e di percorsi semplificati per l’accesso al test e alla prevenzione. La PrEP, disponibile e rimborsata dal Sistema Sanitario Nazionale, resta sconosciuta a gran parte dei giovani e a molti gruppi a rischio.
Questo divario tra possibilità scientifiche e realtà sociale è aggravato dall’assenza di educazione sessuale nelle scuole e da una comunicazione pubblica quasi inesistente sul tema. L’HIV è percepito ancora come un problema di “categorie a rischio”, e lo stigma persiste. La percezione pubblica, spesso distorta, alimenta la paura e l’ignoranza, limitando la consapevolezza della trasmissibilità e delle strategie di prevenzione. Il principio U=U (Undetectable = Untransmittable) — secondo cui una persona con carica virale non rilevabile non trasmette l’infezione — rimane poco diffuso, privando la società di uno strumento fondamentale di conoscenza e responsabilità collettiva.
Il ritardo diagnostico è forse la criticità più rilevante: le persone scoprono l’infezione troppo tardi, quando il sistema immunitario è compromesso e il rischio di complicanze è elevato. In termini epidemiologici, ciò significa che una quota significativa di nuove infezioni deriva da soggetti inconsapevoli di essere positivi. Non si tratta di un mero problema tecnico: è il sintomo di un sistema di prevenzione che fatica a intercettare chi non ha accesso a informazioni, test o percorsi sanitari adeguati.
I test rapidi esistono e sono disponibili, ma la loro diffusione resta limitata, così come il numero di centri che garantiscono screening gratuiti o anonimi. Le difficoltà burocratiche e la paura dello stigma riducono ulteriormente la possibilità di diagnosi precoce. La conseguenza è un circolo vizioso: ritardo diagnostico, maggiore rischio di trasmissione, ulteriore perpetuazione dell’infezione.
Oggi l’Italia dispone di strumenti che altrove hanno cambiato radicalmente la traiettoria dell’epidemia. La PrEP, ad esempio, è stata implementata con successo in paesi come Francia, Regno Unito e Germania, dove campagne pubbliche mirate hanno incrementato l’adesione tra gruppi a rischio, contribuendo a ridurre sensibilmente le nuove infezioni. In Italia, invece, la PrEP resta una risorsa poco conosciuta: le informazioni circolano in maniera frammentaria, spesso attraverso associazioni e canali privati, senza un coordinamento nazionale.
Anche le terapie antiretrovirali, che garantiscono non solo la sopravvivenza ma anche l’azzeramento della trasmissibilità, non sono sufficientemente comunicate come strumenti di prevenzione pubblica. L’assenza di campagne istituzionali significa che molte persone vivono ancora nella paura, ignorando che un trattamento efficace può proteggere sia sé stessi sia gli altri.
Il quadro descritto dalle associazioni è chiaro: senza una strategia nazionale coordinata, con campagne informative capillari e politiche di prevenzione integrate, l’Italia rischia di rimanere indietro rispetto agli obiettivi globali. Il silenzio istituzionale ha conseguenze concrete: perpetua il pregiudizio, limita l’accesso alle informazioni e agli strumenti preventivi, rende invisibili le persone sieropositive e aumenta il rischio di nuove infezioni.
In assenza di un impegno politico e culturale forte, il virus resta “invisibile” agli occhi della società. Questo silenzio non è neutrale: condanna la popolazione a una conoscenza frammentata e rende difficile realizzare interventi mirati. L’Italia non manca di scienza o di capacità sanitaria: manca una decisione politica chiara di affrontare l’HIV come questione di salute pubblica, con strategie di prevenzione, educazione e comunicazione coerenti.
I dati recenti e l’analisi delle associazioni suggeriscono un’urgenza concreta: senza interventi strutturali, senza promozione sistematica della PrEP e dei test rapidi, senza educazione sessuale efficace e comunicazione pubblica, l’obiettivo “infezioni zero” rischia di rimanere una dichiarazione astratta.
Ma c’è un’altra verità: la scienza ha fornito tutti gli strumenti necessari. Terapie, prevenzione, conoscenza e comunicazione possono abbattere il virus. La sfida è culturale, politica e sociale: rendere visibile ciò che oggi resta invisibile, rompere il silenzio, combattere lo stigma. Solo così si potrà tradurre in realtà concreta l’idea di una società protetta dall’HIV.
Il messaggio delle associazioni non è solo un grido di allarme: è una chiamata all’azione, una richiesta che le istituzioni prendano in mano la questione e mettano in campo strategie chiare, misurabili e durature. La prevenzione non può essere delegata solo a chi già conosce il problema: deve diventare patrimonio collettivo, responsabilità pubblica e diritto di ogni cittadino.
(1 dicembre 2025)
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