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Chiara Poggi uccisa due volte

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di Lorenza Morello

Il caso Garlasco dopo 18 anni oggi dalla barbara uccisione di Chiara Poggi, continua a far parlare di sé.

Ma, più ancora che per la giovane donna che perse la vita, per gli errori investigativi e un colpevole scelto prima ancora di capire la verità. In questo scenario fallimentare di chi non studia il crimine perché senza metodo, senza coscienza critica, anche una toga o una divisa possono diventare strumenti di errore.

Le indagini vengono svolte in modo superficiale, con gravi lacune già nelle prime ore successive ai fatti. Inaccettabile il pressappochismo che emerge da ogni nuovo dettaglio.

Un luogo mai bonificato, mai esaminato realmente. Si è costruito un impianto accusatorio su indizi e ipotesi invece di verificare prima, interpretando dopo.

La verità è che le indagini sono sempre condotte male, si inizia cercando il colpevole, non la verità. E se il colpevole designato non si adegua, allora lo si incastra. Lo Stato pretende che l’imputato dimostri da solo la propria innocenza, paghi i periti, recluti genetisti, scopra ciò che gli inquirenti non hanno voluto scoprire.

Una riflessione mai fatta da chi ha il potere di incolpare. Una riflessione seria deve essere  centrata su uno dei principi cardine della giustizia penale: il “ragionevole dubbio”. E proprio su questo pilastro, nel caso di Alberto Stasi, si è consumata una delle contraddizioni più profonde del nostro sistema giudiziario.

Il ragionevole dubbio non è una formula vuota, ma una garanzia costituzionale: nessuno può essere condannato se sussiste anche solo un dubbio plausibile sulla sua colpevolezza. Non serve provare l’innocenza: è lo Stato che deve dimostrare la colpevolezza oltre ogni dubbio ragionevole, ovvero con prova piena, coerente, logica e inequivocabile.

Nel caso Garlasco, invece, è accaduto qualcosa di inquietante. Dopo due assoluzioni in due gradi di giudizio, al terzo tentativo, Stasi viene condannato a 16 anni, e la Cassazione conferma. Eppure, il quadro probatorio resta identico o persino più fragile rispetto alle prime fasi processuali: nessuna arma del delitto, nessuna traccia di sangue sulle scarpe, nessuna impronta, nessuna confessione, nessun testimone oculare. E, soprattutto, nessun movente.

Cosa è cambiato? Non le prove, ma l’interpretazione. Ed è proprio qui che il concetto di “ragionevole dubbio” si frantuma sotto il peso delle congetture, delle aspettative mediatiche e del bisogno di colpire qualcuno. Del colpevole a tutti i costi.

Un principio sacro – che dovrebbe impedire di condannare chi non sia colpevole con certezza – è stato piegato a una logica invertita: “non possiamo escludere che sia stato lui” è diventato sufficiente per una condanna, ma questo non è diritto, è pericolo giuridico.

Ecco perché Chiara Poggi è stata uccisa due volte, la prima volta in casa sua, la seconda nelle aule che dovevano darle giustizia.

Quando permangono troppi equivoci – probatori, logici, giudiziari – non si può condannare. Un castello accusatorio che scricchiola, per definizione, non può reggere una sentenza di colpevolezza.

Condannare nel dubbio significa accettare la possibilità di mandare in carcere un innocente.

E, quando questo accade, lo Stato cessa di essere garante della giustizia e si trasforma in giustiziere cieco.

Il caso Stasi dovrebbe far riflettere ogni giudice, ogni cittadino, ogni studente di giurisprudenza: una condanna senza certezza è un’ingiustizia assoluta.

E il ragionevole dubbio non è una debolezza del sistema: è la sua più alta espressione civile.

 

 

 

(13 agosto 2025)

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