di Vanni Sgaravatti
Si diffonde il nostro malessere per un futuro in cui i nostri figli staranno peggio di come siamo stati noi, percepiamo il nostro spaesamento dovuto a imprevisti, profondi e rapidi cambiamenti, percepiamo una sensazione di invasione del proprio “santuario personale” e di esproprio della propria intimità. Aspetto che incide, in particolare, nei giovani in cerca di una propria individuazione, senza che se ne rendano conto, visto che non hanno mai vissuto un altro tipo di educazione sentimentale.
E tutto questo sembra introduca nella società sentimenti di cinismo e di indifferenza radicale verso la ricerca del significato profondo della nostra vita. Si perde, quindi, la radice del desiderio, che prevede la capacità di sentirsi soggetto autonomo e desiderante e si introduce la paura di qualcosa che non si conosce, stimolando la ricerca della certezza del futuro, meta illusoria e irraggiungibile.
Ed è qui che il sistema socioeconomico capitalistico, che ha come dote fondamentale la sua flessibilità nel trovare sempre nuove forme di esprimersi e di rispondere ai bisogni individuali, può diventare capitalismo della sorveglianza, cogliendo le opportunità offerte dal mondo dell’informazione digitale. Mentre, contemporaneamente e contestualmente, cresce l’attrazione verso un modello politico sovranista e, tendenzialmente, totalitarista, proprio in risposta a questo sentimento di mancanza di una “casa”, di un nostro “santuario”, costituito da un’intimità non pubblica e in risposta alla sensazione di non essere più coautore del destino sociale e del proprio destino.
La condizione di sentirsi partecipe alla determinazione del destino sociale è indispensabile per avvertire l’importanza di essere soggetto autonomo, di volere desiderare e non solo di desiderare qualcosa che arriva da non si sa da dove e secondo tempi che non ci appartengono. Ma naturalmente il totalitarismo è la negazione proprio di quel bisogno che ne fa inizialmente condividere la nostalgia verso una sua rinascita, perché inizialmente dà un nome e un volto e quindi un ordine allo spaesamento di padroni senza volto del nostro destino. Dà l’illusione di una scelta nella delegare qualcuno che possa condurci fuori da una vita che sembra girare a vuoto, una scorciatoia da un impegno personale, ma che diventa, come ben sappiamo, un’altra prigione, forse, in fondo, la stessa. Il totalitarismo prospera dove ci sono moltitudini fatti di soggetti equivalenti, persone trasformate in oggetti ad insaputa delle persone che ne fanno parte, intese come soggetti. Ed è una deviazione politico sociale preparata da anni di neoliberismo, anche se non voluta e tanto meno pianificata, che ha unito tutti noi, consumatori di tutto il mondo e che ha trasformato, poi, le nostre esistenze in fonti di dati sui nostri comportamenti.
Dati che personalizzano le offerte, che a loro volta determinano incentivi ai comportamenti, così da condizionarli e da rendere le previsioni sulla vendita tendere alla certezza. Sempre quella ansia di certezza che viene resa merce, domanda di servizi da soddisfare.
La fuga verso il totalitarismo nasce anche dalla ribellione al neoliberismo globalizzante, che, però, lascia in eredità strumenti manipolatori assolutamente efficaci. La democrazia diventa, quindi, un concetto non più inviolabile, come risulta da una ricerca mondiale, in cui nelle democrazie mature mediamente solo il 40% delle persone la considerano la forma di governo indispensabile ed in cui l’Italia risulta sotto la linea mediana, con ben due terzi degli italiani che non la considerano più un valore irrinunciabile. Il ché è terribile, se si pensa a quanto possa salire questa percentuale tra persone che non sono dichiaratamente progressiste o che non hanno potuto o voluto beneficiare di una educazione umanistica.
Il capitalismo della sorveglianza, come sostiene la Zuboff nel suo libro, ha messo in atto l’esproprio non autorizzato dell’esperienza umana, il dirottamento della divisione dell’apprendimento nella società, l’indipendenza strutturale del capitalismo, l’imposizione della forma collettiva dell’alveare, l’ascesa del potere strumentalizzate e dell’indifferenza radicale alla base della logica dell’estrazione, la costruzione, la proprietà e la gestione dei mezzi di modifica del comportamento costituita dal grande altro (tutti noi, trasformati in “altro”, cioè in oggetti osservabili), l’abrogazione di diritti fondamentali al futuro, l’allontanamento dell’individuo in grado di autodeterminarsi dal cuore della vita democratica, l’annebbiamento psichico come merce di scambio con l’individuo in un illegittimo do ut does.
La privacy sui dati e informazioni che registrano tracce di noi disperse nel mondo (e non solo quelle che scriviamo in un pc o uno smartphone) non è solo una questione di riservatezza, ma di protezione della sovranità dell’individuo sulla propria vita, la volontà di volere e gli spazi pubblici in cui utilizzarla.
Se questa è la posta in gioco, il conflitto è duro e la parte di noi che non ci è amica usa armi di distrazione di massa. Sempre più sofisticate, come quelle di concentrarsi su politici e amministratori, burattini e burattinai, attori e registi, come fossero loro gli artefici dei mali del nostro mondo. Arrivando persino ad approfondire le loro storie personali, alla ricerca dell’origine della loro immoralità, dei loro peccati. E così facendo, o meglio, così sentendo, non ci si rende conto di distrarci, di attaccare il bersaglio sbagliato. Esternalizzare il male, dandogli un volto è la strada più facile: se esistesse davvero il grande burattinaio, me lo immaginerei a ridacchiare dei nostri improperi contro i diavoletti di turno. L’anima diabolica trasmigra da un corpo all’altro del cattivo, dal politico di potere a quello che vorremmo cambiare con un altro e, persino, a noi stessi, se mai potessimo prendere il loro posto.
Il futuro, se deve essere diverso da quello che sembra tracciato verso oscuri destini, dipenderà dai giovani che sapranno ribellarsi all’inevitabilità delle condizioni a cui molti genitori si sono adattati. Soprattutto se si rendono conto, sempre come sostiene la Zuboff che: l’autonomia è indispensabile; un alveare senza uscita non può essere una casa; l’esperienza senza il santuario della propria intimità rimane solo un’ombra; una vita in cui ci si deve nascondere, scavando tunnel per non essere scrutati è indegna; toccare senza sentire niente non ci offrirà alcuna verità ed essere liberi dal dubbio non è vera libertà.
Dobbiamo rompere l’incantesimo fatto di fascino, impotenza, rassegnazione, insensibilità, chiedere al capitalismo digitale che operi come forza inclusiva, devota alle persone, che deve servire e difendere la divisione dell’apprendimento e del sapere come risorsa per rendere vitale la democrazia.
La democrazia si nutre di conflitti, lascia i cittadini sempre insoddisfatti su come il sistema democratico ha gestito i problemi, ma è questa imperfezione che assicura la dinamicità del cambiamento e la partecipazione, che si nutre della fiducia socialmente condivisa. Il cinismo e l’indifferenza radicale, minando alla base la fiducia sociale, ci ipnotizza, mostrando, come unica soluzione possibile l’abbandono della propria autonomia di volere, l’eliminazione definitiva di quel senso di insoddisfazione “democratica”, aprendo le porte alla domanda di un totalitarismo e della relativa delega deresponsabilizzante al leader che lo incarna. Un modello che vediamo riprodotto nei sistemi cinesi e russi che, per un beffardo gioco del destino, stanno attraendo una parte di noi, come le libertà del mercato ha attratto chi li ha vissuti davvero quei modelli. Una pericolosa deriva che si presenta sotto nuove forme, che si impone all’ombra della nostra consapevolezza, in particolare perché tende a non usare una violenza coercitiva (almeno dalle nostre parti), ma a richiedere solo una collusione con i nostri desideri, da appagare nel breve periodo.
Siamo stati costruiti istintivamente per il godimento nel breve periodo, non tanto quanto le scimmie, perché noi sapiens abbiamo trovato utile modificare l’ambiente per trovarcisi meglio dentro, piuttosto che adattarci. Ma abbastanza per non prevedere effetti di lungo periodo dei nostri comportamenti, proprio quando la società complessa avrebbe bisogno di questo pensiero lungimirante, purtroppo, lontano dal nostro sentire istintivo.
Uno scostamento, quello tra il pensiero razionale e il sentimento istintivo, che veniva coperto da riti culturali e religiosi o narrazioni ideologiche, ma che hanno portato alle immani tragedie del secolo scorso, quando il sistema, ha teso, per le sue dinamiche interne, a crescere sempre di più fino a diventare globale, ma con l’impossibilità di una parallela crescita della morale universale.
Il ricordo delle tragedie vissute nel secolo scorso, in nome delle ideologie, che ha portato, inizialmente a rifiutare quel collante ideologico, quella visione etica e ha permesso che quel continuo scambio tra bisogno individuale e godimento immediato ci portasse alla continua e progressiva alienazione di noi stessi dal significato della nostra vita. E che, proprio per questo, fa rientrare dalla porta, proprio le stesse ideologie, adeguatamente camuffate, rimosse e, quindi, nascoste.
La soluzione però non è quella di cercare istruzioni per l’uso, che leghino con una razionalità etica imposta da un super-io ormai senza autorevolezza il proprio bisogno di sentimenti ed emozioni, ma di ascoltarci per ritrovare la ragione di un impegno verso un nostro riconoscimento interiore e autonomo. Certamente, qualsiasi “dover essere” e qualsiasi “dover sentire” torna a suonare come una predica, da cui si vuole fuggire, anche per non aprire gli occhi sul nostro vuoto. E allora non mi resta che far uscire, a conclusione delle mie riflessioni, le parole che, personalmente, mi risuonano dentro, come una specie di invocazione, un “message in the bottle”, che spero di continuare a cogliere in questo mio naufragare nel mare della vita.
(24 ottobre 2022)
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