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#Visioni di Mila Mercadante: Geni, oche all’erta e corvi su bordi biliosi, il diritto di parola spetta a tutti

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Corvo 00di Mila Mercadante  twitter@Mila56170236

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». 

 

Quando Umberto Eco pronunciò quella frase pensai che fosse invecchiato inesorabilmente anche dentro, perché esprimeva una grande nostalgia del passato. Persino ai migliori, ai più illuminati e ai più colti scappano considerazioni sbagliate, paternalistiche e venate di un fondo di brutalità. E si, perché arrogarsi il diritto di affermare che le masse sono immature e che dispiacciono coi loro giudizi sommari e sguaiati è un po’ come invocare una qualche forma di censura, significa ammettere la necessità di un setaccio per evitare che gli scarti contaminino l’ottimo, significa difendere il diritto inalienabile dei sacerdoti della verità all’incontestabilità. Eco – e non solo lui – malsopportava che gli stupidi della rete possano permettersi di contestare i dotti e i noti, coloro che da sempre spiegano al volgo il come, il quando, il perché di tutte le cose mondane. Da qui a pensare che se gli imbecilli non andassero a votare sarebbe meglio, non ci corre poi molto.

 

E’ naturale che alla maggior parte di noi non piaccia imbattersi sui social in certi commenti cretini, volgari, offensivi oppure semplicemente inutili. Non è naturale però desiderare di zittire le persone. Non è naturale ritenere che solo chi abbia alle spalle una media formazione culturale e una discreta educazione possa godere appieno del diritto di dire la sua, e sempre fino a un certo punto, s’intende: se il commentatore da social la pensa come noi va bene, altrimenti è un idiota. La bellezza dei social sta nella libertà di espressione: ognuno partecipa a suo modo, così come sa fare, coi propri limiti, i propri pregiudizi, la propria immensa ignoranza e la propria mediocrità. Pochi ci mettono la faccia e il nome e il cognome, purtroppo, ma anche questo fa parte del gioco e anche questo bisogna accettare. Che male ne viene? Non mi riferisco ovviamente né ai cyber bulli né a coloro che attaccano minoranze e soggetti deboli: sto parlando dei rovinologi, degli innocui scovatori di piccole e grandi magagne per i quali bisognerebbe provare una grande simpatia umana, dei critici improvvisati dell’attualità, di quelli con l’impulso a usare parole molto forti all’indirizzo di governanti e personaggi pubblici, di quelli che contestano frasi, affermazioni e azioni con la cattiveria tipica dei faziosi, talvolta anche a sproposito.

 

Chi crede che certi atteggiamenti possano favorire il ricorso alla violenza si sbaglia. L’istigazione alla violenza non viene certo dai social, nasce e pasce altrove. Essa si annida nelle parole dei politicanti e di certi intellettuali, nel loro razzismo mascherato oppure esplicito, nella viltà di chi tace, nel privilegio degli impuniti, nelle stanze dei Palazzi, negli sguardi degli avidi e dei burattinai, nel perseguimento di fini che non giovano alla società civile e nel lavoro quotidiano per consolidare e ingigantire disuguaglianza e disparità, nel sopruso reiterato, nella menzogna. I poveri cristi che si lasciano andare contro questo o quel deputato e che offendono il giornalista di turno non provocano alcun genere di ripercussioni. Piuttosto: la facoltà generalizzata di inveire assicura – oggi più che mai – una stabilità e un’apatia sociali mai viste prima. Il nuovo regime si rafforza anche in virtù di tale traguardo della modernità: i ragazzi sono liberi di mandare a quel paese la Presidente Boldrini o Salvini trenta volte al giorno perché il gusto che provano è inversamente proporzionale ai diritti di cui godono. Più si danno da fare con la tastiera e più perdono forza. Il rumore delle invettive ha un’eco di disperazione, è una condanna di cui i provocatori non sono consapevoli. Questo è l’aspetto inquietante della faccenda, questo è il lato interessante che ci coinvolge proprio tutti, perché non esiste in realtà alcuna separazione tra migliori e peggiori. Chi lo pensa ha i paraocchi. Ancora una volta vale la pena di citare Pasolini, che 44 anni fa aveva capito tutto:

“Il ciclo si è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto pazientemente una moda che – se non si può proprio dire fascista nel senso classico della parola – è però di una estrema destra reale.” 

 

Morta la dialettica e morto il piacere – utilissimo – dello scambio delle idee rimane in piedi solo l’attività sportiva: due, tre fazioni contrapposte si fanno gli sberleffi a vicenda e non s’accorgono neanche di essere uguali, fanno ciò che rimproverano agli altri, invocano moderazione attraverso le offese all’indirizzo degli avversari. Chi ci guadagna? Elementare, Watson.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(18 aprile 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©gaiaitalia.com 2016 – diritti riservati, riproduzone vietata

 

 

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