di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana
Nel febbraio del 1970, dopo la caduta del secondo Governo Rumor, le trattative tra i Partiti del centrosinistra per la costruzione di un nuovo esecutivo vennero seccamente paralizzate e interrotte da un intervento del Vaticano. Un’ingerenza tutta protesa a impedire l’approvazione definitiva del disegno di legge ‘Fortuna-Baslini’ sul divorzio, già munito del voto favorevole della Camera. In sostanza, il Vaticano ci tenne a sottolineare come in quella proposta legislativa si configurasse una palese violazione dell’articolo 34 dei Patti Lateranensi, laddove era espressamente prevista la competenza dei Tribunali ecclesiastici sugli annullamenti dei matrimoni celebrati secondo il rito religioso. La questione già da tempo stava surriscaldando il clima politico: in una solenne dichiarazione del novembre del 1969, la Conferenza episcopale italiana (Cei) aveva fatto sapere che “in uno Stato democratico come quello italiano, nel quale i diritti della famiglia come società originaria, precedente lo Stato, vengono riconosciuti dalla Costituzione, non si può modificare la struttura fondamentale della famiglia stessa senza aver direttamente accertato il pensiero e la volontà della maggioranza del popolo, tutto ciò prescindendo dalla immodificabilità, per unilaterale iniziativa dello Stato italiano, della situazione disciplinata dall’art. 34 del Concordato”. I vescovi, in sostanza, stavano già esplicitamente pensando al referendum abrogativo. Come, del resto, la stessa Democrazia cristiana, la quale dovette constatare l’esistenza di una larga maggioranza laica e ‘divorzista’ all’interno del parlamento italiano. Il ‘povero’ Rumor non era certamente in grado di reggere un ‘urto frontale’ con la Curia romana. Pertanto, si affrettò a rimettere il proprio incarico “ritenendo inconciliabili le posizioni della Dc con i propri alleati intorno a una questione così delicata”. La ‘mano’ passò dunque ad Aldo Moro. Il quale, immediatamente, ribaltò completamente l’impostazione del problema, rammentando come “Stato e Chiesa siano, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, proponendo altresì di non immischiare il nuovo esecutivo intorno a una legge che, comunque, doveva ancora completare il proprio iter legislativo. In pratica, Moro si fece letteralmente ‘crocifiggere’ dalla stessa Dc, la quale non poteva permettersi che proprio un suo uomo la costringesse a ‘bere l’amaro calice’ della sconfitta su una questione di principio. Ma il varco per la soluzione della crisi di governo era ormai scavato. E Mariano Rumor, ormai liberato dalla responsabilità di dover interpretare la parte del ‘notaio’ di un cedimento, riuscì finalmente a raggiungere l’intesa con Pri, Psdi e Psi in base all’impegno a non ostacolare il cammino in Senato della legge ‘Fortuna-Baslini’. Perciò, il 1° dicembre 1970, lo strumento del divorzio entrò finalmente a far parte dell’ordinamento giuridico italiano. Il ‘pacchetto’ di norme si dimostrò tanto misurato, quanto efficace: a parte i casi di completa insussistenza del vincolo matrimoniale o di vistosa penalizzazione di uno dei due coniugi, l’art. 1 consentì lo scioglimento del matrimonio “anche quando l’assenza di comunione materiale e spirituale fra marito e moglie è attestata da almeno 5 anni di separazione legale o di fatto”. Negli anni successivi, inoltre, non si registrò affatto la ‘marea di divorzi’ paventata dal clero. Tuttavia, i cattolici ‘integristi’ erano letteralmente ‘inviperiti’, nella convinzione che la maggioranza del Paese fosse contraria a un provvedimento del genere. Dunque, riunitisi in un Comitato presieduto da Gabrio Lombardi, decisero di raccogliere le firme necessarie per ottenere un ricorso alle urne. Non senza furberia, i cattolici decisero di impostare una campagna tutta tesa a sottolineare i pericoli sociali che sarebbero derivati dalla ‘rottura’ del matrimonio: libero amore, depravazioni, crisi della famiglia, disorientamento dei figli con relative turbe psichiche. Lo stesso Segretario nazionale della Dc, Amintore Fanfani, iniziò a girare in lungo e in largo per l’Italia paventando grottescamente tutte le malizie erotiche e le perversioni sessuali a cui il divorzio avrebbe ‘spalancato la porta’. E invece, il 12 maggio 1974, tra lo stupore generale, il 59,3% degli italiani rispose con un secco ‘No’ all’abrogazione di quella norma. L’avvenimento fu, per una volta, effettivamente ‘storico’, poiché sancì il primo segnale di tramonto di quella cultura cattolica che aveva dominato l’Italia sin dai tempi della Controriforma e del Concilio di Trento: non delle ‘culture’ cattoliche, attenzione! Né, tantomeno, dell’adesione a una fede o a una speranza cristiana di salvezza, bensì dell’ambizione a identificarsi con una dottrina morale ‘naturale’ e della sua pretesa di annettere la società intera a un’unica visione del mondo, a un solo modo di intendere e impostare la vita privata, i rapporti sessuali, i legami di paternità e di maternità. Certamente, per la neonata laicità italiana si trattava ancora di una modernità più patita che vissuta consapevolmente, di un’accettazione di costumi instauratisi inavvertitamente, dunque ancor priva di ogni capacità di elaborazione di autonomi e coerenti modelli di valore. Tuttavia, un primo segnale era stato dato: l’Italia intendeva modernizzarsi, voleva scuotersi dal proprio ‘torpore secolare’. E la cosa fu in seguito confermata anche dal successivo referendum per l’abolizione della legge n. 194 sull’aborto non terapeutico, svoltosi il 17 maggio 1980, in cui il 67% degli italiani decise di mantenere in vigore una norma che poneva, per la prima volta, al centro di ogni decisione di maternità le donne italiane. E loro soltanto.
(12 febbraio 2015)
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