di Lonsito De Toledo
Ogni guerra comincia con una bugia, e la bugia più efficace non è quella detta sottovoce, ma quella ripetuta fino a diventare ovvia. È una bugia che non si presenta come tale, ma come un dato di fatto, una verità naturale. In questo caso la parola magica è “sicurezza”. Quante volte l’abbiamo sentita pronunciare in televisione, nei comunicati ufficiali, persino nei discorsi più quotidiani: Israele ha diritto alla sua sicurezza. Una formula apparentemente innocente, anzi rassicurante, perché chi potrebbe negare a un popolo il diritto di sentirsi al sicuro?
Eppure, basta grattare un poco la superficie per scoprire l’inganno. Che cosa significa “sicurezza” quando coincide con l’annientamento dell’altro? Che cosa significa quando la si traduce in macerie, in file di corpi ammassati nei corridoi degli ospedali, in bambini estratti dalla polvere ancora vivi ma senza più una famiglia? La sicurezza non è più una condizione da difendere, ma un progetto da imporre. Non riguarda più la protezione di chi abita un territorio, ma la cancellazione di chi viene considerato intruso.
È qui che il linguaggio diventa un’arma a tutti gli effetti. Ogni volta che la parola “difesa” viene pronunciata, essa maschera la realtà: un bombardamento non è più un atto di aggressione, ma un atto di tutela; un assedio non è più una violenza, ma una precauzione; la fame e la sete inflitte a una popolazione civile diventano “strumenti di pressione”. E mentre le parole cambiano forma, anche i fatti cambiano peso: il sangue dei morti non è più scandalo, ma costo necessario; i corpi non sono più vittime, ma statistiche.
Non è la prima volta che accade. Ogni impero, ogni potere armato ha bisogno di parole per legittimarsi. I romani chiamavano “pacificazione” il massacro delle tribù ribelli; i colonialisti europei parlavano di “civilizzazione” mentre riducevano in schiavitù interi continenti; i nazisti parlavano di “ordine” e “pulizia” mentre costruivano i campi di sterminio. Il linguaggio è sempre la prima arma, perché senza parole addomesticate il crimine appare nella sua nudità, e nella nudità non c’è spazio per l’inganno.
Chi oggi parla di “diritto alla sicurezza” non sta dicendo qualcosa di neutro, ma sta già schierando un esercito semantico. È un esercito invisibile, ma non meno letale. Funziona così: prima si sostituisce la realtà con la parola; poi si ripete la parola fino a renderla naturale; infine si agisce come se fosse l’unica cornice possibile. In questo modo, interi popoli diventano invisibili. Non più persone, ma ostacoli; non più esistenze, ma problemi da gestire. E un problema, si sa, non ha diritti: si elimina, si rimuove, si azzera.
La violenza, a questo punto, non è più percepita come tale. Diventa gesto amministrativo. Non una scelta, ma un dovere. Non un crimine, ma una pratica regolata. È il paradosso del linguaggio: rende l’orrore compatibile con la coscienza di chi lo osserva da lontano. Chi ascolta un telegiornale, chi legge un titolo, non sente la lacerazione che dovrebbe provare davanti a un bambino dilaniato da una bomba: sente solo che “Israele difende la sua sicurezza”. E in quel momento la coscienza si addormenta, convinta di aver compreso, mentre in realtà è stata narcotizzata.
Ecco perché il primo atto politico, di fronte a tutto questo, è smascherare le parole. Ridare loro il loro peso, strappare le maschere. Dire che la “sicurezza” non può significare genocidio, che la “difesa” non può significare annientamento, che la “necessità militare” non può cancellare le vite civili. Non è un dettaglio retorico: è un gesto di resistenza. Perché se lasciamo che il linguaggio venga piegato, allora tutto diventa possibile. Oggi è Gaza, domani può essere chiunque altro.
Siamo chiamati, dunque, non solo a denunciare i fatti, ma a denunciare le parole che li rendono accettabili. A rifiutare la narrazione che li trasforma in atti di giustizia. A gridare che dietro ogni “operazione di sicurezza” c’è un bambino che non vedrà più la luce del giorno, una madre che seppellisce il figlio, un corpo che sparisce sotto le macerie. Questa è la verità che nessuna parola potrà mai cancellare, se avremo la forza di continuare a nominarla.
La violenza che si perpetua in Medio Oriente non può essere trattata come un incidente di percorso o come una fatalità inscritta nel destino di quelle terre. È il risultato di una scelta sistematica, pianificata e reiterata, che si appoggia su una macchina militare e diplomatica costruita per schiacciare ogni tentativo di resistenza, anche quando questa resistenza si esprime nelle forme più elementari: il diritto alla vita, alla casa, all’istruzione, alla libertà di movimento.
Ogni volta che un ospedale viene bombardato, ci viene raccontato che dietro quelle mura si nascondeva un deposito di armi. Ogni volta che un convoglio umanitario viene fatto a pezzi, ci viene ripetuto che trasportava miliziani. È una narrazione che non ha bisogno di prove, perché poggia sull’assunto che ogni palestinese sia, in potenza, un nemico; che ogni bambino sia un futuro combattente; che ogni anziano che non abbandona la propria casa sia un complice. È l’equivalente moderno della logica delle rappresaglie naziste: se uno colpisce, dieci devono morire.
Eppure, ciò che rende questa tragedia ancora più insopportabile è la coltre di indifferenza o, peggio, di complicità che la circonda. Le cancellerie occidentali, che pure hanno pianto a fiumi per altre catastrofi, si affrettano qui a parlare di “diritto alla difesa” e a concedere forniture militari illimitate. L’Europa, che ama presentarsi come custode dei diritti umani, balbetta frasi di circostanza e intanto partecipa, in silenzio, al grande banchetto delle armi. Gli Stati Uniti, da parte loro, non hanno nemmeno bisogno di ipocrisie: difendono apertamente l’occupazione come se fosse una missione civilizzatrice, riproducendo la stessa logica coloniale che hanno sempre applicato altrove.
Ma la storia insegna che nessuna occupazione è eterna. I ghetti non hanno mai prodotto sicurezza, i muri non hanno mai fermato i popoli, la paura non ha mai garantito stabilità. Quello che oggi viene celebrato come deterrenza militare è, in realtà, un investimento certo nel futuro della violenza. Ogni villaggio raso al suolo, ogni famiglia sterminata, ogni funerale trasformato in bersaglio alimenta un odio che non si cancella con le promesse di ricostruzione. È la fabbrica dell’odio, ed è alimentata con fondi internazionali e giustificazioni morali che scivolano sul piano inclinato della complicità.
E allora la domanda non è più solo politica, ma etica. Che cosa significa tollerare la distruzione sistematica di un popolo? Significa ammettere che i principi universali valgono solo per alcuni. Significa ridurre la Dichiarazione dei Diritti Umani a un pezzo di carta da citare nelle cerimonie ufficiali e da ignorare nei momenti in cui dovrebbe avere forza normativa. Significa, infine, aprire la strada a una barbarie che non resterà confinata oltre il Mediterraneo.
Perché ogni giustificazione dell’ingiustificabile non resta mai senza conseguenze. Accettare che la logica del “nemico collettivo” possa annullare il valore della vita civile significa accettare che domani la stessa logica possa essere usata altrove: nelle periferie delle nostre città, contro i migranti, contro i poveri, contro chiunque venga individuato come elemento disturbante. È un virus che si espande, che scava nei fondamenti stessi della convivenza civile.
Ecco perché non basta commuoversi davanti alle immagini di corpi senza vita. Non basta indignarsi a intermittenza sui social. Bisogna avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome: occupazione, apartheid, crimine di guerra. Bisogna smettere di rifugiarsi dietro l’alibi della complessità, come se la complessità fosse un lasciapassare per l’inerzia. La complessità non è mai stata una scusa per l’ingiustizia: lo sterminio degli ebrei in Europa era complesso, le guerre balcaniche erano complesse, i genocidi in Africa erano complessi. Ma nessuno oggi avrebbe il coraggio di dire che la complessità attenua la responsabilità di chi ha premuto il grilletto o di chi ha ordinato i bombardamenti.
Se davvero vogliamo onorare la memoria delle vittime del passato, non possiamo tacere davanti alle vittime del presente. Non possiamo usare Auschwitz come monumento per il nostro senso di colpa e poi girare lo sguardo quando la logica del ghetto viene riproposta in altre forme. Non possiamo commuoverci per Anne Frank e poi rimanere indifferenti davanti ai bambini che scrivono il loro nome sui muri di Gaza, perché sanno che presto potrebbero essere inghiottiti dalle macerie.
Ogni volta che un crimine viene giustificato, la storia subisce una ferita. Non parlo solo della memoria collettiva dei popoli direttamente coinvolti, ma di quella che dovrebbe guidare l’umanità intera. Perché la storia non serve solo a raccontare ciò che è stato: serve a insegnarci ciò che non dobbiamo mai ripetere. Eppure, quando ci lasciamo ingannare dalle parole e dai titoli dei giornali, la memoria diventa vuota, rituale, ricordo di cartapesta.
Pensiamo a quanto accaduto nel Novecento: le rappresaglie nazifasciste nelle città occupate, i ghetti, i campi di sterminio. La logica era la stessa: punire collettivamente, terrorizzare, annientare. Non c’era differenza tra i colpi diretti e la fame inflitta a intere comunità, tra gli ordini emanati dai generali e le bombe sganciate sulle case. La sproporzione non era un accidente: era il principio stesso dell’occupazione, della guerra, della violenza legittimata.
Oggi si ripete la stessa meccanica, con altre parole e nuovi strumenti tecnologici. Il bombardamento di interi quartieri diventa “precision strike”, la distruzione delle infrastrutture “misure preventive”, la morte dei civili “effetti collaterali inevitabili”. È una lingua inventata apposta per anestetizzare la coscienza. È un linguaggio che trasforma la barbarie in routine, che fa apparire normale l’ecatombe quotidiana.
E mentre si lavora sulla parola, si lavora anche sull’immagine. La televisione e i social trasformano i morti in numeri, i bambini in statistiche, le madri in simboli di una tragedia distante. Non c’è contatto reale con il dolore, non c’è possibilità di indignarsi in maniera concreta: lo shock visivo diventa consumo mediatico, la compassione un gesto virtuale da scrollare in pochi secondi. Così si costruisce la complicità silenziosa: chi osserva da lontano si convince che non ci sia nulla da fare, che tutto sia inevitabile, che la violenza sia una legge naturale.
Ma la memoria vera non si piega a questa logica. Ricorda i nomi, le case, le strade, le scuole che non esistono più. Ricorda i volti dei bambini che non hanno avuto futuro. Ricorda le menzogne che accompagnano ogni racconto, e chiama ognuno per nome: carnefice, complice, testimone, indifferente. Solo così la memoria può svolgere la sua funzione: costringere l’umanità a scegliere, ancora e ancora, se tollerare l’ingiustizia o combatterla.
Ogni crimine giustificato oggi è un precedente storico domani. Ogni silenzio davanti a un massacro alimenta il prossimo massacro. La memoria tradita non è soltanto una ferita morale: è un invito alla catastrofe successiva. Per questo non basta indignarsi davanti agli articoli di cronaca. Non basta commuoversi per pochi secondi sui social. Occorre agire sul linguaggio, sulla percezione, sulla coscienza pubblica, perché ogni parola che giustifica un crimine diventa una pietra sulla strada della nuova violenza.
Si parla spesso di scudi umani, di civili usati come protezione dai propri stessi governi. È una verità parziale, strumentalizzata e politicizzata. La presenza di un combattente o di una milizia in mezzo alla popolazione civile non rende automaticamente legittimo l’attacco indiscriminato. Nessuna strategia militare può cancellare il principio etico fondamentale: la vita dei non-combattenti è inviolabile.
Il linguaggio che giustifica gli attacchi sotto l’alibi degli scudi umani funziona così: trasforma il civile in ostacolo, il bambino in scudo, la madre in involucro. Chi colpisce non è più un assassino: è un esecutore di giustizia, che rispetta regole “necessarie”. Ma la necessità non può mai sostituire il diritto, né la strategia militare può sostituire la coscienza morale.
Chi parla di scudi umani dimentica che dietro ogni corpo colpito c’è una persona, un individuo, un mondo che si sgretola. Non è un dettaglio secondario: è la differenza tra crimine e legittima difesa. In assenza di questa distinzione, ogni azione militare si trasforma in un precedente, ogni massacro in una regola. Oggi è un quartiere, domani una città, dopodomani un intero popolo.
Il concetto di scudo umano è stato spesso usato come giustificazione per legittimare la violenza più brutale. È una narrazione che sposta la responsabilità dai carnefici alle vittime, che trasforma l’orrore in racconto di inevitabilità. Eppure, basta guardare con onestà la realtà per capire che la logica non regge: la presenza di un nemico non autorizza mai la cancellazione dei civili, non legittima il bombardamento indiscriminato, non può trasformare la guerra in sterminio.
La normalizzazione del crimine è la tragedia più subdola, perché avviene senza clamore, senza apparente violenza, eppure è più potente di un bombardamento. Si manifesta nelle parole dei politici, nei titoli dei giornali, nei dibattiti televisivi, nelle frasi che ripetiamo come automatismi: “è inevitabile”, “è una fase transitoria”, “sono eventi complessi”. La violenza viene così depotenziata, resa accettabile, trasformata in routine.
Ogni volta che si accetta un massacro come inevitabile, si compie un atto morale che va ben oltre il singolo episodio: si crea un precedente. Oggi è Gaza, domani può essere qualsiasi altro luogo dove la sproporzione della forza diventa la regola. I crimini contro i civili, quando entrano nella narrativa come effetti collaterali inevitabili, smettono di essere crimini. Diventano pratica comune, modello di comportamento, esempio da imitare.
La strategia è antica quanto il potere stesso: anestetizzare la coscienza collettiva fino a convincerla che non c’è scelta possibile. E funziona. Chi ascolta, chi legge, chi guarda dalla distanza, percepisce solo un conflitto, un dato inevitabile della storia, e non il genocidio. Il crimine perde il suo peso morale perché viene immerso in un mare di spiegazioni, scuse e alibi.
Ma la verità non cambia. La sproporzione rimane sproporzione, la morte rimane morte, l’ingiustizia rimane ingiustizia. Il crimine normalizzato non smette di essere crimine: smette solo di indignarci, smette di chiamare le cose con il loro nome. Ed è questa rinuncia alla denominazione, a chiamare “sterminio” quello che è sterminio, che permette al potere di continuare indisturbato.
Dietro la parola “sicurezza” si nasconde spesso un progetto di cancellazione: non solo fisica, ma anche simbolica. Non si tratta di fermare un nemico, ma di cancellare un popolo dalla sua terra, ridurre la sua esistenza a numeri e macerie. Le mappe non si ridisegnano solo con gli accordi diplomatici: si ridisegnano con le bombe, le demolizioni e le politiche di segregazione.
Quando uno Stato dispone di eserciti, droni, intelligence avanzata e finanziamenti illimitati, il confine tra guerra e sterminio diventa labile. Ogni abitazione rasa al suolo, ogni strada distrutta, ogni infrastruttura civile colpita è un passo verso la cancellazione completa. Non è un effetto collaterale: è strategia pianificata. Ogni massacro, ogni deportazione, ogni blocco economico contribuisce a un disegno politico preciso, volto a rendere la vita impossibile, a spingere un popolo alla fuga, a spegnere la sua presenza.
È una logica che abbiamo visto anche in altri contesti storici: i genocidi del XX secolo non si sono compiuti per errori tattici, ma per piani meticolosi. L’orrore si ripete quando la comunità internazionale tace o giustifica, quando le parole vengono piegate per legittimare il progetto di cancellazione.
Di fronte a tutto questo, il silenzio non è innocente: è complicità. Ogni volta che un giornale minimizza un massacro, ogni volta che una diplomazia chiude gli occhi, ogni volta che un cittadino comune accetta la narrazione dominante senza interrogarsi, diventa parte del meccanismo che rende possibili quei crimini.
La responsabilità non riguarda solo chi preme il grilletto, chi ordina i bombardamenti o chi dirige le politiche militari. Riguarda tutti noi, perché viviamo in un mondo interconnesso, dove le nostre parole, i nostri silenzi, le nostre indifferenze alimentano la perpetuazione della violenza. Ignorare questa responsabilità significa tradire la memoria storica, tradire i principi universali che proclamiamo, tradire la nostra umanità.
Chi si rifugia dietro la neutralità non è neutrale: diventa complice del crimine. La neutralità di fronte a un genocidio non esiste. Chi tace di fronte all’ingiustizia dà il proprio consenso, anche se involontario. La storia ci ricorda che le atrocità continuano finché qualcuno, da qualche parte, non ha il coraggio di chiamarle col loro nome.
Non possiamo più permetterci di ascoltare la retorica della sicurezza come se fosse neutra. Non possiamo più accettare che la violenza diventi normale, che l’orrore diventi routine. Dobbiamo nominare i crimini, smascherare le parole, risvegliare la coscienza pubblica. Ogni bambino ucciso, ogni ospedale distrutto, ogni convoglio umanitario colpito deve scuotere la nostra responsabilità morale.
Questo è un grido: non accettare l’ingiustizia, non abituarsi al crimine, non consentire che la memoria venga tradita. Perché ogni volta che lo facciamo, ogni volta che ci voltiano dall’altra parte, stiamo permettendo che l’orrore si ripeta, che la barbarie diventi sistema, che la violenza si legittimi.
La vera sicurezza non è bombardare, non è eliminare, non è giustificare. La vera sicurezza è rispettare la vita, riconoscere l’umanità dell’altro, proteggere i civili, difendere il diritto fondamentale di esistere. Qualsiasi altra definizione è menzogna, qualsiasi altra strategia è crimine.
(28 settembre 2025)
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