di Il Capo
Il negozio di alimentari sotto casa dove compro abitualmente le verdure di cui mi nutro, quasi non mangio altro, è gestito da un uomo di grande bontà e sensibilità cui la vita non ha risparmiato colpi terribili, togliendogli fratello, genitori, un figlio ed il migliore amico nel giro di pochissimi anni. Cose che ammazzerebbero un cavallo. Lui, persona di grande cuore, continua a sorridere e ad avere parole di comprensione per chiunque. Anche per la grassa ed infelice mucca che proprio due ore fa, mentre acquistavo lievito, uova e farina (faccio il pane con le mie mani, alla faccia di chi mi vuol male), chiacchierava amabilmente della sua indisponente menopausa con l’uomo dietro il bancone, rivolgendoglisi con parole del tipo: “Sah (sospiro)… la vita è dura, non sono stata fortunata come lei che ha lavoro, denaro e tranquillità” al ché, prevenendomi dall’intervenire, il negoziante ha bestemmiato orribilmente, ha gettato nel cestino ciò che stava affettando ed ha invitato con modi bruschi la donna – dopo averle ricordato cosa la vita gli aveva riservato negli ultimi tre anni – ad uscire dal negozio prima che la mettesse fuori lui.
Questa è (politicamente parlando) una tipica scenetta italica, nella quale la disperata di turno, convinta di essere sola al mondo ed infantilmente degradata dalle disperazioni che pensa di vivere solo lei, si rivolge a qualcuno che le disperazioni le ha viste tutte, inondandolo d’insulti (di questo si trattava), inconsapevolmente, senza cattiveria direbbe Signora mia, con l’incoscienza di una bambina di tre anni come se non fosse una donna con un certo numero di anni di esperienza alle spalle. Gente così è la risposta a molte delle domande che ci poniamo sul Paese.
Per questo, ritengo, i negozi di generi alimentari sono molto meglio di quelli da parrucchiera dove, tutt’al più, ci si può trovare una frocia sfranta (spiacente, signori attivisti, frocia sfranta non è uno sbocco omofobo, è una triste realtà) che confusa sul suo sesso biologio non più che su quello di chi le sta intorno, irride sé stessa, si inalbera da sola – perché in qualche modo deve intrattenere le sue clienti – si precipita empaticamente negli abissi nulleschi di chi per risolvere i problemi affronta una permanente o un nuovo taglio di capelli.
Da un certo punto di vista insomma, il negozio da parrucchiera è meno vicino alla realtà di quello di alimentari: lì i problemi hanno a che fare con le viscere e con ciò che il cibo diventa dopo averci nutrito. Il macellaio, il prosciuttaio, il mortadellaio e le loro clienti, per qualche motivo, devono avere il realismo campagnolo che alla frocia sfranta ed alla parrucchiera manca, dato che per loro costituzione devono essere (o sentirsi) alla moda.
Per questo (politicamente parlando) preferisco i negozi di generi alimentari a quelli da parrucchiera.
(15 aprile 2015)
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