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Ciò che mi rende furiosa di Gisella Calabrese: Si può morire ancora per il calcio?

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Gisella Calabrese 03di Gisella Calabrese  twitter@giscal77 

Archiviata la deludente quanto imbarazzante prestazione degli Azzurri in Nazionale, il ritorno dal Brasile in Italia è stato – se possibile – ancor più mesto delle più nere previsioni. Ad appesantire il fardello della vergogna si è aggiunta la triste (ma inevitabile) notizia che dopo 50 giorni di ricovero in ospedale, Ciro Esposito non ce l’ha fatta. Il tifoso napoletano era in trasferta a Roma il 3 maggio scorso ed è stato colpito di spalle da un colpo di pistola ad un polmone da un balordo, ultrà romanista (forse sì, forse no) ma di certo razzista e fascista, a giudicare dal ridicolo ricettacolo di oggetti di chiara appartenenza di estrema destra che componeva il suo piccolo ufficio nel centro della capitale. Insomma, i presagi funesti c’erano tutti in questo Mondiale sfortunato sotto molti punti di vista, e da giorni si continua a parlare di calcio, ma non come sarebbe bello – e giusto – che fosse.

Leggendo le decine di articoli su questa tragica storia, sembra di assistere a un bollettino di guerra, anziché al resoconto di una partita disputata quasi due mesi fa e a nulla sono valsi i tentativi pubblici della famiglia Esposito nell’esortare a sopprimere qualsiasi esternazione di odio per la morte del loro giovane figlio. Da ogni parte arrivano opinioni e racconti diversi e controversi e forse, allo stato attuale delle cose, non riusciremo mai a capire dove sta la “vera verità”, ma su alcuni punti possiamo essere certi.

Ciro è stato ucciso in una domenica come tante. Non era in Libano o in Siria, ma a Roma, per vedere il suo Napoli giocare una partita di calcio, la finale di Coppa Italia contro la Fiorentina. E’ stato ferito per strada, in viale Tor di Quinto, mentre era di spalle, come fanno i camorristi che non hanno codice d’onore, per quante possano essere le fiction televisive che vorrebbero far credere il contrario. Forse stava scappando, o forse no, ma è questo che ha determinato l’autopsia. Il suo assassino – Daniele De Santis, ora accusato di omicidio volontario – è una vecchia conoscenza tra le forze dell’ordine romane. Un ultrà che aveva una pistola e che ha sparato, in un momento di confusione e tafferugli e pare che anche lui, come altri, abbia subito pesanti lesioni nello scontro. Chi abbia cominciato, quale sia stato il motivo scatenante non è chiaro e onestamente oggi non ha alcuna rilevanza. Un ragazzo ha perso la vita per mano di un altro uomo, di cui ignorava l’esistenza fino a pochi istanti prima di essere colpito.

Ciò che fa inorridire è la corsa all’odio pazzo e sfrenato, i commenti idioti e beceri sulla napoletanità di Esposito, che viveva a Scampia, zona ben nota per le difficili condizioni in cui è costretta a vivere, fianco a fianco ad una criminalità organizzata così radicata nel territorio che liberarsene richiede uno sforzo immane. Messaggi di inaudita cattiveria e di gioia per la morte di un figlio italiano. Colpiscono, ma non sorprendono, in un Paese dove un partito razzista e xenofobo continua a soggiornare nelle stanze dei bottoni, a prendere voti, a cercare di avere un peso politico nelle decisioni di governo. Ovvio che in una simile, imbarazzante situazione nazionale, le cattiverie vomitate sullo sfortunato Ciro e sulla sua famiglia non possono più stupire, come invece dovrebbe essere in un Paese civile.

In una tragedia tipicamente italiana, come sempre non si è in grado di affrontare il problema con maturità e riflessione, ci si lascia andare all’impeto, all’irrazionalità dell’impatto emotivo, all’esagerazione. A Napoli spuntano come funghi striscioni di odio puro e manifesto nei confronti dei romani e di chiunque ci capiti a tiro, sui manifesti funebri Ciro Esposito è stato definito “eroe civile che ha salvato donne e bambini” e a lui sarà intitolata una piazza di Scampia. Comprendo il dolore e l’assurdità di una simile tragedia che è caduta dal cielo inaspettata e crudele, senza possibilità di soluzione, ma anche nel verso opposto si esagera. E lo si fa in grande stile. Ribadendo che non sono chiare le dinamiche dello scontro a fuoco, quando penso ad un eroe civile che ha salvato donne e bambini penso ad altri, con tutto il rispetto per Esposito. Tanti sono invece i nomi illustri di italiani che hanno davvero cambiato un pezzetto dell’umanità in modi differenti e importanti a cui invece non è stato intitolato nulla, nemmeno una stradina privata senza uscita.

Un ragazzo è morto e questa è di fatto una tragedia, ma deve essere comunque trattata per quello che è, un incidente che si poteva evitare con i giusti mezzi e le giuste soluzioni. Appare chiaro che le forze dell’ordine impiegate per determinate partite di calcio da sole sono inefficaci e in numero insufficiente per arginare situazioni complesse e prevedibili. Ci vogliono serie norme, leggi e soprattutto iter giuridici che ne permettano l’attuazione, perché uomo contro uomo da solo può fare ben poco e non è assicurato che il finale sia sempre positivo.

Alzi la mano chi si ricorda degli Hooligans, i “figli di Attila” al cui passaggio non cresceva più l’erba e tutto finiva distrutto. Semplicemente, non esistono più. L’Inghilterra ha usato il pungo duro, pene severissime, controlli a tappeto, sentenze attuate senza se e senza ma. Noi qui invece siamo ancora a combattere con bande di teppistelli, fascisti, facinorosi e ignoranti che riescono persino a dettare legge durante le partite. Come dimenticare “Genny a’ carogna”, figlio di un noto camorrista napoletano con cui la squadra di De Laurentiis ha dovuto contrattare durante la partita serale di Fiorentina – Napoli. Insomma, “Genny ha detto sì e possiamo giocare”, il succo della questione è stato questo, puro e semplice, regalando al pubblico uno spettacolo indegno, indecoroso e vergognoso. Oggi si è persino presentato ai funerali di Esposito, la Carogna, e non mi sorprenderei se si fosse pure permesso di parlare durante l’orazione funebre. In fondo, secondo alcuni tifosi napoletani, è stato tra i soccorritori di Esposito. Un’anima pia, insomma. Come quella di Antonino Speziale, l’ultrà catanese che uccise il poliziotto Filippo Raciti nel febbraio 2007, durante il Derby Catania – Palermo. La sua famiglia, che continua a professare l’innocenza del ventiquattrenne omicida, ha persino inviato agli Esposito una corona di fiori.

Questi soggetti, che aizzano la folla, che determinano il corso di importanti partite, continuano a lavorare nell’ombra, ma ormai hanno preso coraggio e sono usciti alla luce del sole, spesso sostenuti dalle stesse società calcistiche che li conoscono addirittura per nome. E’ questa gente che sporca lo sport, lo infanga con delle macchie che non vengono via nemmeno usando il migliore dei detersivi, il più caro, l’ultimo ritrovato della tecnica. Nulla può essere efficace contro certi “tumori civili”. In un simile clima di connivenza del malcostume, a poco servono piazze e partite in nome della vittima di turno. Perché Ciro Esposito non è il primo e, cosa ancora più tristemente vera, non sarà nemmeno l’ultimo. Questo mi indigna e mi fa infuriare davvero, perché andare a vedere una partita di calcio diventa sempre più pericoloso proprio a causa di questa oscena condizione.

Il calcio è vittima e ostaggio di una minoranza che sta acquisendo sempre più potere, che diffonde un odio ingiustificato e inutile, che miete vittime spesso nemmeno avvezze ad uno stadio olimpico. Come possiamo sperare che “lo sport più bello del mondo” (anche se per me non è così) possa portarci onore e vittorie se è questa la merce che esportiamo? Il mondo delle tifoserie, volente o nolente, è parte integrante del calcio e di chi lo segue con passione. E’ proprio questa la faccia che vogliamo mostrare al mondo? E’ questo il nostro essere “tifosi italiani”? No, io non credo.

 

Cordialmente vostra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(27 giugno 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©gisella calabrese 2014
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